La prova in giudizio dell’amministrazione finanziaria

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Avv. Barbara Mandelli e Avv. Giulio Mario Guffanti

La riforma del processo tributario, di recente attuata con la Legge 31 agosto 2022, n. 130, è andata a toccare direttamente l’annosa questione della distribuzione dell’onere della prova tra Uffici finanziari e contribuente.

Dalla data del 16 settembre 2022, è espressamente previsto che l’Amministrazione finanziaria debba provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato, mentre rimane al contribuente l’espressa indicazione delle ragioni della richiesta di rimborso (art. 7, comma 5-bis del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546).

Il giudice fonda così la propria decisione sugli elementi di prova che emergono nel corso del giudizio ed è tenuto ad annullare l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale e in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si basa la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.

La citata disposizione normativa, seppur sembrando ad una prima lettura rivestire carattere innovativo, si ancora in realtà a regole già presenti nel nostro ordinamento e non intacca certo il più ampio istituto, riferibile anche al contenzioso tributario, del processo dispositivo, secondo il quale la materia del contendere non può che rientrare nel potere esclusivo delle parti.

In effetti, il processo tributario è caratterizzato dall’iniziativa di parte, non solo nella fase introduttiva allorquando, di norma, il contribuente si trova ad impugnare un atto per chiederne l’annullamento, ma anche, in quella istruttoria, essendo di competenza delle parti il compito di allegare i fatti e fornire le prove; le corti di giustizia tributaria, poi, devono porre a fondamento della decisione i fatti allegati dalle parti.

Il principio desumibile dall’ultimo intervento legislativo era quindi già presente nel contenzioso tributario, semmai andava meglio esplicitato per evitare che rimanesse disapplicato nella prassi. Tanto è vero che la giurisprudenza, ritenendo applicabile anche nel processo tributario l’art. 2697 c.c., a mente del quale colui che «vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento», a suo tempo si trovava già ad affermare che, una volta avviato il contenzioso, competeva all’Amministrazione finanziaria, «passare dall’allegazione della propria pretesa alla prova del credito tributario vantato nei confronti del contribuente, fornendo la dimostrazione degli elementi costitutivi del proprio diritto» (Cass., sez. trib., 23 maggio 2012, n. 8136).

E, a questo punto, concludeva la Suprema Corte, spettava al giudice: «operare, con adeguata motivazione, il controllo critico sulla correttezza e portata probatoria e sulla coerenza logica e giuridica degli elementi adottati» (Cass., sez. trib., 23 maggio 2012, n. 8136).

Con la riforma viene espressamente previsto, che, prima dell’emissione del provvedimento impositivo, l’Ufficio deve aver già la prova del fondamento della pretesa e, se contestata dal contribuente, deve essere esibita al giudice e, quest’ultimo decide esclusivamente in base ai soli elementi di prova che emergono nel corso del giudizio.

Detto e premesso ciò, pare importante semmai tenere ben distinti ed in evidenza i motivi dell’accertamento e, quindi, la motivazione che deve essere allegata fin dall’atto impositivo (a pena di nullità) da quelle che sono le prove vere e proprie e che possono essere esplicitate nel corso del contenzioso in base alle note regole scandite dalle varie fasi del processo (nelle controdeduzioni ex art. 23 del D. Lgs. n. 546/1992 la parte resistente deve indicare le prove di cui intende valersi).

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