La Pubblica Amministrazione e il ruolo degli Enti locali. Tentativi di cambiamento in atto

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Premessa

Uno dei temi all’ordine del giorno delle forze politiche, del governo, delle amministrazioni, e, in definitiva, dei cittadini, è la riforma della Pubblica amministrazione strettamente collegata anche con i concetti di autonomia differenziata e sussidiarietà. La mia breve riflessione abbraccia e vuole avvicinarsi a questi temi con occhio rivolto alla gestione dei servizi pubblici, con uno sguardo agli Enti locali, che considero, pur sempre, i capisaldi della nostra convivenza civile e “luoghi” istituzionali fondamentali per una P.A. adeguata ai tempi.

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Contestualizzando l’attuale momento, a più riprese e sempre con maggior insistenza , si parla di autonomia differenziata, suissidiarietà e di riforma della P.A. Sono ormai anni che questo percroso è iniziato e si è tutti consapevoli che c’è bisogno e urgenza di cambiamento e rinnovamento all’interno della macchina pubblica, pur tuttavia, spesso si interpongono degli ostacoli che causano lunghi rinvi. Evidentemente vi sono diversità di opinioni su come cambiare la macchina pubblica e che cosa si intende per l’autonomia locale, del resto prevista dal nostro costituente, e come può questa contribuire a migliorare la P.A, portandola all’altezza dei tempi in cui viviamo.

Proviamo a dare qualche risposta estrapolando dal dibattito politico, alcuni frammenti della discussione in atto. Partiamo da certuni termini tecnici, il cui significato immediato non è subito intellegibile ai non addetti ai lavori ma che assumono, almeno penso, valenza notevole nello scenario di cambiamento amministrativo, soprattutto con riferimento ai servizi pubblici, e che ci possono far capirete meglio il dibattito in corso. Grande rilievo assumono, in tale contesto, i c.d. LEP (acronimo che sta indicare i livelli essenziali delle prestazioni) e i LEA (analoghi ai LEP ma con riferimento alla sanità). Fermandoci sui primi e sul livello delle prestazioni, in termini molto schematici, con tale terminologia si intende la necessità   di garantire un determinato servizio pubblico efficiente in tutto l’ambito nazionale, tenendo conto delle caratteristiche territoriali, avendo, quindi, riguardo agli aspetti socio- demografici ed economici che insistono in quel determinato territorio, come lo stesso è condizionato dal clima nel contesto geografico in cui è insediato, il costo della vita, etc. I LEP sono come delle “chiavi” per aprire un sistema e per offrire una valida erogazione dei servizi e delle prestazioni, e pertanto, si tratta di strumenti necessari per dare un significato alla c.d. autonomia differenziata. Lep ed autonomia differenziata sono dunque uniti dallo stesso anello che e a loro contribuisce a formare la più vasta catena chiamata P.A. La metafora mi aiuta a semplificare e spiegare, con più immediatezza, quello di cui si sta dibattendo in questo periodo.

Come dicono gli studiosi del problema, tecnicamente, con tali mezzi si realizzano soglie minime di servizi (gli stessi LEP sono, di fatto, delle soglie minime) sull’intero territorio nazionale. Ricordo che l’art. 117 della nostra Costituzione, del resto, li prevede espressamente: (m) “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.

I fabbisogni standard sono, invece, gli indicatori che valutano il fabbisogno finanziario di cui abbisognano i Comuni per erogare alcuni, direi, vitali servizi, quali, per citarne solo certuni, la viabilità e il territorio, il servizio sociale, la pubblica istruzione, la polizia locale e altri. Questi servizi sono associati appunto a dei fabbisogni. Il fabbisogno c.d. standard totale è, invece, la somma complessiva da finanziare. Senza complicare ulteriormente le cose, lo scopo principale di tali fabbisogni standard è la redistribuzione equa delle risorse finanziarie ai Comuni. Oggi la determinazione dell’indicatore è affidata a Sose (società partecipata dal Ministero dell’Economia e Finanze e dalla Banca d’Italia).

Attualmente vale il principio della c.d. Spesa storica (cioè la spesa effettivamente sostenuta, e fotografata ad una certa data, dai Comuni per l’erogazione di detti servizi) ma tale criterio è stato messo in discussione e si dovrebbe sostituirlo con i LEP per garantire maggior uniformità in tutto il territorio nazionale tenendo conto, come già anticipato, delle caratteristiche del territorio medesimo. Questa è l’istantanea.

La determinazione dei LEP, attiene, per di più, alle materie in cui lo Stato ha una competenza legislativa esclusiva. Allo scopo, anche per meglio definirli sul piano operativo, è stata recentemente costituita, una commissione composta da esperti, oltre che dai Ministri interessati e dai rappresentanti di Regione, Province e Comuni. Questo sta a significare l’importanza da un lato che rivestono, ma sottolinea anche la difficoltà, dall’altro, che tali determinazioni comportano. La finanza locale già gode, quanto meno dal 2021-22, di risorse aggiuntive per garantire alcuni servizi social (come, per esempio, in materia di asili nido, servizi sociali e tarsporto disabili). Sono stati, allo scopo, previsti sulla carta, delle percentuali di raggiungimento nell’arco di un tempo prestabilito per il miglioramento o il funzionamento, nella logica appena descritta, di tali servizi. I LEP, però, malgardo la loro previsone costituzionale e la loro importanza pratica, ancora, stentano a decollare. La SOSE, secondo quanto stabilito dal D. Lgs. n.216 del 2010, costituisce per l’appunto, la banca dati di riferimento e definisce le metodologie utilizzate dalla Commissione Tecnica per i Fabbisogni standard (CTFS) per la definizione dei fabbisogni standard dei Comuni delle Regioni a Statuto Ordinario. Questa ha elaborato, appunto, delle metodologie al riguardo, tendenti al raggiungimento di tali prestazioni ottimali per i servizi erogati, proprio con riferimento alle caratteristiche del territorio nazionale. Il panorama politico-legislativo in discussione sul tema, vede tuttora opinioni economico-giuridiche diversificate, nonché discordanti, pro e contro (almeno da quello che trapela dalle audizioni e come riportato dalla stampa) e al momento non sappiamo cosa e come saranno approvati e definiti. E’ innegabile, in ogni caso, che occorre mettere mano ai servizi pubblici forniti e lo si deve fare con strumenti “scientifici”, per quanto possibile, che non penalizzino territori   nell’ambito nazionale e quindi i cittadini. E’ una bella scommessa! Analogamente, si parla dei LEA (Livelli essenziali di assistenza) cioè le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a garantire a tutti i cittadini, in maniera gratuita o a pagamento di una quota di partecipazione (ticket). Si tratta di servizi e prestazioni sanitarie che, come si è visto, soprattutto in questi anni, assumono importanza rilevante e che basta qualche disgrazia (si pensi alla recente pandemia) ma anche ad altri accadimenti, per mettere in crisi il sistema sanitario. In ogni modo sono note a tutti le differenze di tali prestazioni da Regione e Regione.

Questo quadro d’insieme ci fa capire   l’attualità e l’urgenza di trovare idonee soluzioni, comunque rappresenta il punto di partenza per quella autonomia differenziata di cui si sta parlando da diverso tempo e che sembra di difficile approdo.

Si sta poi, sempre con maggiore insistenza, esaminando e discutendo sulla necessità di verifica di alcuni binomi e precisamente: quantità e qualità dei servizi e PNRR. In altri termini ci sono ovunque i servizi pubblici all’intero del territorio nazionale e con quale qualità? Per chiarire risponderei con ulteriori esempi presi dal nostro vissuto quotidiano. Se una famiglia ha un bambino (e in questo momento, peculiarmente nel nostro paese, la natalità va incentivata) dobbiamo chiederci, banalmente, se ci sono asili nido che lo accolgono, lo proteggono, lo curano e lo custodiscono adeguatamente in modo che i genitori continuino a rimanere, il più serenamente possibile, nel loro posto di lavoro!

Sembrano domande banali e forse lo sono per chi ha una certa età, ma non certamente per le giovani coppie e in definitiva per la nazione. Su questi aspetti ci si deve interpellare e di conseguenza investire se necessita. La questione è, nell’esempio dei nido, fondamentalmente in mano ai Comuni e quindi si ricade in un servizio che va valorizzato potenziando gli Enti locali.

Credo che il fondamento di tale questione sia proprio della mission dell’Ente locale. Certamente, però, le risposte sono collegate agli strumenti necessari per la gestione corretta di un servizio pubblico. E’ dunque indispensabile partire, anzitutto, da una sana programmazione per evitare, probabilmente, interventi a tampone e azioni economiche generalizzate e adottate, magari frettolosamente, nel momento del bisogno, del resto sempre più frequente, a sostegno della collettività, scongiurando così prelevamenti di bilancio, per impinguare fondi e capitoli non previsti, che implicano, logicamente, delicate e molto spesso criticate, variazioni degli strumenti politico- contabili. Va da sé che la programmazione si coniuga con una corretta informazione. Per utilizzare un altro accadimento recente, in materia energetica (quale la crisi di riscaldamento poi paurosamente aggravata per mancanza del gas a causa della guerra), forse avremmo potuto o comunque mitigato la situazione emergenziale, perché già le prime avvisaglie della situazione energetica erano state a suo tempo segnalate all’ARERA (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) la quale aveva informato gli organi preposti di quanto stava succedendo. E’ vero che si è intervenuti prontamente con i sussidi, necessari, quanto meno per dare una prima risposta alle esigenze create dalla carenza del prodotto gas, calmierando altresì, almeno parzialmente, la crescita delle bollette e contenendo gli effetti negativi degli aumenti dei prezzi frenando l’inflazione, però, senza una adeguata programmazione che faccia tesoro dell’accaduto, il problema si ripresenterà. In realtà, quando si interviene con sussidi, l’intervento produce effetti che si esauriscono in un breve periodo. Evidentemente, di fronte all’urgenza e necessità, non c’è evidentemente il tempo per programmare e, come si può intuire, si cerca, a più riprese, di mettere mano alla situazione provando ad intervenire per risolvere o per lo meno arginare la situazione.

Gli esempi, appena citati, mi permettono di sottolineare e chiarire che occorre muoversi in modo uniforme, e magari, se necessario, con un piano articolato di collaborazione istituzionale, altrimenti si rischia di non raggiungere lo scopo prefissato. Obbliga, allora, premere in questa direzione per superare la frammentarietà degli interventi, coniugando i bisogni della popolazione con un’azione solidale da parte degli attori istituzionali, e non, il più possibile mirata, omogenea e programmata.

Queste problematiche inducono ad una riflessione che coinvolge la governance fondata sul principio della distinzione fra politica e gestione. Merita in questo contesto un accenno al necessario potenziamento di alcuni strumenti gestionali e collaborativi. Cito per tutti i nuclei di valutazione, figure idonee per misurare aspetti di gestione che devono valutare i progetti e il personale apicale proposto alla loro realizzazione e quindi proporre, o meno, premi in base agli obiettivi sfidanti realizzati. E’ necessario, perché questo avvenga correttamente, anzitutto che i loro componenti siano professionalmente formati e liberi da ogni condizionamento. Occorre, inoltre, mettere in campo quella che gli studiosi parlano di una necessaria “strategia della responsabilità” che coinvolge controllori e controllati. Per inciso, sul versante della cooperazione e distinzione dei ruoli, è necessaria la tanto declamata, ma poco praticata, separazione tra burocrazia e politica, disgiunzione già teorizzata, autorevolmente, già negli USA dall’allora Presidente Woodrow Wilson (1856-1924) dove, l’amministrazione deve rimanere al di fuori della sfera politica e viceversa. In altri termini, la politica deve programmare e controllare i risultati, avendo presenti e chiari gli obiettivi primari ma non deve interferire con l’attività gestionale, che rimane in capo ai dirigenti e funzionari apicali. Si è tutti consapevoli che i confini tra queste due attività, non sono ben delineati normativamente ed è facile invadere il territorio di altri. Il legislatore italiano e la giurisprudenza, sono comunque intervenute in questo particolare ambito, cercando di fare chiarezza per evitare influenze, che possono essere reciproche, che non farebbero il bene dei cittadini che si aspettano il meglio da chi li amministra. Il principio di separazione (si parla anche di distinzione) tra il momento politico-amministrativo,[1] di competenza degli organi di governo, e quello tecnico-gestionale, affidato invece ai dirigenti e più in generale alla burocrazia, registrerebbe un ulteriore passaggio in avanti sul piano concettuale e culturale e soprattutto gestionale. Il tutto a beneficio della collettività.

Anche le procedure imposte dalla legge, per continuare la nostra analisi, a volte, sono molto vincolanti (la c.d. burocrazia), anche se si possono, comunque, intravedere, dei risultati positivi nel recente excursus normativo, che brevemente riassumo. Dal D.P.R. 748/1972, che istituì la carriera dirigenziale con funzioni proprie (senza quindi la delega propria di uno Stato centrale con tre qualifiche poi allargata anche alle amministrazioni locali Enti locali e Regioni però con solo due categorie: primi dirigenti e dirigenti superiori) passando dagli anni 80-90 per proseguire il cammino con il d.lgs. 29/1993. Sul versante Istituzionale, ricordo poi i decreti conosciuti come “Bassanini”, che portarono ad un tentativo, del resto ancora in fieri, per una nuova PA, e che si rafforzerà, per gli Enti locali, negli anni novanta con la legge 142/ 90 (poi TUEL 267/2000) e la legge gemella 241/90 (conosciuta giornalisticamente come la legge sulla trasparenza e partecipazione). Cito poi, quello che ritengo, almeno nel nostro ragionamento, il più singolare dei provvedimenti di organizzazione, cioè l’attribuzione della gestione di risorse umane ai dirigenti. L’art. 5 del d.lgs. 165/2001, in particolare stabilisce   “….le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, nel rispetto del principio di pari opportunità, e in particolare la direzione e l’organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro…..”. Questo passaggio normativo segna la nascita, sul piano contabile, dei budget, cioè più capitoli di spesa gestita dai dirigenti o apicali. Nascono gli atti organizzativi (regolamenti in primis) adottati dagli organi di governo, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 165/2001, per dare forma e concretezza ad una gestione interna attraverso le proprie strutture (principio di autonomia). Malgrado questo percorso, il ruolo dei dirigenti con funzioni manageriali, ancora oggi fatica ad emergere. Importante è da sottolineare, inoltre, la nascita, di pari passo, di un nuovo tipo di responsabilità dirigenziale (art. 21 del d.lgs. 165/2001) che si aggiunge alle altre vigenti (penale, amministrativa, civile e disciplinare) in capo ai dirigenti medesimi che scatta qualora il dirigente non raggiungesse gli obiettivi prefissati (previa loro contestazione). L’art. 107, 6 comma del D.lgs. 267/2000, enumera, in realtà, il principio su cui poggia tale responsabilità “I dirigenti sono direttamente responsabili, in via esclusiva, in relazione agli obiettivi dell’ente, della correttezza amministrativa, della efficienza e dei risultati della gestione”. Quindi una responsabilità legata alla gestione dell’Ente.

Siamo dunque davanti a dei cambiamenti rivolti ad una buona amministrazione pubblica, ma ancora insufficienti perché, molto probabilmente, per una risposta gestionale effettiva, occorre creare pure quel clima di fiducia e di responsabilità pubblica che permetta al personale (dirigenti e apicali in primis) di esercitare i propri compiti nel modo migliore. Oggi la Pubblica amministrazione è molto criticata e comunque soggetta al vero controllo che è quello dei cittadini. Gli Enti locali hanno, comunque, sempre dato prova di grande capacità e solidarietà nel gestire l’ordinario e le emergenze (si pensi al lungo periodo del Covid e o alle altre necessità quotidiane) e dimostrato “spirito di corpo” attraverso l’organizzazione oggi sviluppata e raccordata, sempre più, con le forze del terzo settore e del volontariato. Di questo ne dobbiamo dare atto e merito perché sono aspetti importanti e delicati, che costituiscono e rappresentano la nuova linfa vitale per creare quel clima di fiducia, cui ho accennato, e dal quale ogni buon progetto amministrativo non può prescindere.

Il legislatore ha dunque, sulla carta, definito il passaggio alla gestione amministrativa, ma è necessario e sicuramente innegabile e corretto, ribadire che questo processo fatica a connotarsi come anima e strumento della richiesta effettiva di una gestione dei servizi all’altezza dei tempi anche per il sopravvivere all’interno della PA di una cultura burocratica che ha radici profonde. Organizzativamente, infatti, volendo scandagliare la macchina anche dall’interno, si è passati dalla vecchia “Pianta Organica” (strumento molto statico in cui venivano sistemati i dipendenti a seconda delle loro qualifiche funzionali), all’attuale e più snello “assetto organizzativo interno”. Il mansionario dei dipendenti, però, almeno in molti casi, manca e si fa riferimento alle declaratorie dei contratti nazionali di lavoro (e in qualche caso alla contrattazione decentrata) che nondimeno disciplinano le mansioni in modo alquanto generale. Necessita indicare, invece, quali sono le mansioni specificatamente in capo ai soggetti e regolamentarle per renderle efficaci oltre che efficienti, per evitare confusione dei ruoli e per scongiurare contenziosi inutili e defatiganti oltre che costosi. E’ un “alveare”, usando questa similitudine, perfetto solo se ognuno trova la propria collocazione in base al proprio ruolo, finalizzato al raggiungimento del bene comune quale “miele” da esternalizzare come prodotto finito.

Necessita avvicinare, ancora, l’ente pubblico, alle strategie aziendali soprattutto su alcuni aspetti, come quello della programmazione, succitato, e dell’analisi dei controlli. Non è così scontato perché si affrontano-scontrano due culture e due modi di intendere il concetto di gestione e di amministrazione. Rimane vivo l’aspetto dolente della burocrazia e delle procedure cui l’amministrazione pubblica insiste, spesso non per volontà dei burocrati ma per questioni attinenti la “genealogia” dell’ente pubblico che nasce con una logica nobile, che è quella di rispettare la legge e fornire servizi e funzioni secondo criteri bene individuati, ma utilizzando mezzi e strumenti attempati, La legittimità dell’operare della P.A. è sicuramente un fine da raggiungere, quindi corretto, ma che non deve prescindere da un necessario bilanciamento con gli strumenti propri dell’economia aziendale che investono pur sempre aspetti gestionali. Su tali sfaccettature gestionali, dovrebbero, a mio avviso, operare i controlli che, seppur con la dovuta discrezionalità per non invadere il merito della scelta politica, dovrebbero sostituire quelli che chiamerei formali e parlare così di controlli sostanziali, che andrebbero definiti sul piano normativo e che rimarrebbero in capo sempre agli organi giurisdizionali preposti.

Sempre per rimanere nel campo della gestione è doveroso sottolineare che sono stati fatti, tanti passi, in avanti in questo senso.   Si pensi, per esempio, all’affiancamento della contabilità economica a quella finanziaria (obbligatoria per gli enti locali medio grossi, ma presente anche nei piccoli). Sono stati inseriti indicatori delle performance, circa il lavoro del pubblico dipendente, tipici del privato, calandoli nella realtà pubblica. E’ stato pensato, per esemplificare ulteriormente, al master plan, come strumento privato che si può adattare anche al pubblico con alcune premesse e attenzioni. Nell’ambito della valutazione degli immobili (con riguardo al patrimonio) si è considerato, finalmente aggiungerei, l’aspetto valutativo dei beni degli enti locali spesso relegato e non considerato opportunamente nei bilanci comunali. Potrei continuare, ma è sufficiente ricordare che questo processo positivo, in atto, non si fermerà. Forse lo sforzo maggiore dovrebbe, oggi, essere operato nel campo della semplificazione amministrativa, argomento che non riesce a sfondare e svilupparsi compiutamente. Salva l’introduzione del silenzio assenso, non riuscirei a vedere cambiamenti radicali. La decisionalità e la laboriosità nei processi decisionali è un altro aspetto che rallenta la pubblica amministrazione e la gestione ne risente (anche con aggravi di costi). C’è ancora molto da fare, ma la strada è segnata in positivo.

Con riguardo agli Enti locali, non credo utopistico chiedere, ai primi cittadini, una collaborazione che la nuova gestione impone. I Sindaci sposano sempre e comunque la sussidiarietà. Del reso il testo costituzionale, all’art. 118, recita, che tutto deve avevenire “ sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.

Infine un aggancio doveroso all’Europa, anche scomodando la storia economica di questi ultimi anni che ci dice: “Gli storici interrogano e spiegano il passato a cominciare dai problemi del presente”.[2] Mi soffermo per inciso ad alcuni studi, anche non recentissimi, validi per la maggior parte in tutta Europa, con riferimento alla questione ambientale in generale, tema sempre attualissimo, dove si evince che sono le aree urbane, responsabili (sembra fino all’80%) del consumo di energia e della stessa percentuale di emissioni di CO2. Sono dati che dimostrano che il problema è internazionale. Un’Europa che si sta allargando deve, pazientemente, rapportarsi con le altre nazioni extraeuropee e con le altre grandi economie del pianeta, per affrontare questi temi legati all’ambiente ed ad altri. Vi sono avvisaglie, come nei momenti di crisi, dove la storia economica ci insegna e ci chiede di sviluppare il desiderio di una necessaria sussidiarietà, che alberga dentro di noi, verso una “ricostruzione” che parte dal basso, dai cittadini e dagli enti locali, i quali sono tutti convinti che occorre ampliare e rafforzare la coesione fra gli Stati europei per una migliore distribuzione dei compiti e mezzi e per una superiore qualità dei servizi per il benessere di tutti per la realizzazione dell’interesse pubblico. Del resto il PNRR sembra andare in questa direzione. Però bisogna lavorare molto, come ho cercato di insistere, sulla macchina che governa la gestione ed è forse superfluo ribadire che si tratta di una gestione di beni e servizi pubblici che compete pur sempre alla pubblica amministrazione, cui gli Enti locali sono una parte preponderante e, molto probabilmente, l’arma vincente. Dall’Ente locale deve affermarsi l’idea che non bisogna cedere alle tentazioni di immobilismo del tipo” tanto le cose non cambiano” perché non c’è niente di peggio della rassegnazione quale ostacolo al cambiamento.

Avv. Giovanni Dainese

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Riferimenti bibliografici

Borgonovi Elio e Rusconi Gianfranco, (2015) “La responsabilità sociale delle Istituzioni di pubblico interesse” a cura di Elio Borgonovi e Gianfranco Rusconi. Franco Angeli editore- Persona, Imprese e Società 8 Fondazione Acli Milanesi.

  1. Dainese; Enti Locali tra autonomia differenziata e sussidiarietà. Key Editore 2022.
  2. Dainese; La comunicazione della pubblica amministrazione 2° EDIZIONE AGGIORNATA (OTTOBRE. 2018 Maggioli Editore Collana UNIVERSITA’).

Luciano Vandelli Il Sistema delle Autonomie locali. Il Mulino VI ed 2015.

Marco Gattini “L’Europa verso il mercato globale “2006 Ed. Egea

Marcello Claric: Manuale di diritto ministrativo quarta edizione IL Mulino 2019.

Robert Simon. Sistemi di controllo e misure di performance a cura di Franco Amigoni Ed Egea

 

 

 

 

[1] Principio enunciato dal D.lgs. 165/2001

[2] Marco Gattini “L’Europa verso il mercato globale “2006 Egea.

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