Cassazione Civile, Sezione I, 22 marzo 2001, n. 4085

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 9 maggio 1995 la curatela del fallimento della S.r.l. […] convenne in giudizio la Banca Nazionale dell’Agricoltura per sentir revocare, ai sensi dell’art. 67, comma 2, l. fall. , e quali pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, le rimesse pari a lire 84.833.891, eseguite dalla fallita, e risultanti dal conto corrente, in epoca successiva alla sospensione degli affidamenti, disposta dalla Banca con telegramma del 20 dicembre 1993.
In contraddittorio della convenuta, costituitasi in giudizio per resistere alla pretesa, l’adito Tribunale di Bologna, con sentenza emessa il 14 agosto 1997, accolse la domanda osservando che la sospensione era stata in realtà una revoca degli affidamenti, e in particolare […] dell’apertura di credito, per cui le rimesse eseguite in epoca successiva, in quanto eseguite su conto scoperto, ossia non assistito da un’apertura di credito, avevano natura solutoria, ed ancora, che revocabili risultavano anche le rimesse effettuate da terzi.
Propose appello la Banca con due motivi e sostenne, con il primo motivo di gravame, che con lo sconto s.b.f. di ricevute bancarie la società correntista aveva ceduto i crediti cui si riferiva la quasi totalità delle rimesse in questione, così che essa banca, quale cessionaria, aveva incassato danaro proprio che aveva diritto di trattenere; ed inoltre che, avendo la società medesima fruito, attraverso prelievi allo scoperto dal conto sul quale utilizzava l’affidamento, della disponibilità delle somme relative ai crediti ceduti non alla data di accredito sul conto corrente di corrispondenza, ma ben prima e cioè immediatamente e contestualmente alla presentazione delle distinte di portafoglio, l’affidamento complessivo era stato pari a 130.000.000 di lire per la cumulabilità tra fido in bianco per conto passivo e il castelletto per portafoglio commerciale s.b.f. – sicché nessuno dei versamenti in questione aveva natura solutoria. Contestò inoltre la banca appellante che di natura solutoria potessero ritenersi i tre versamenti effettuati da terzi mediante bonifici, gli unici affluiti sul conto corrente ordinario.
Con il secondo motivo di gravame la banca appellante dedusse che mai avrebbero potuto essere a lei richieste in restituzione le somme non incassate, relative a ricevute bancarie (specificamente indicate) tornate insolute.
La Corte di appello territoriale, con sentenza emessa il 18 febbraio 1999, rigettò il gravame.
La sentenza ha ricostruito i rapporti intrattenuti dalla società poi fallita con la Banca Nazionale dell’Agricoltura ed ha poi puntualizzato, in fatto, che l’apertura di credito in conto corrente concessa alla società aveva il limite di lire 50.000.000; che “dopo la sospensione di tutti i fidi, quando il conto presentava un saldo debitore di lire 113.690.987, erano state iscritte sul conto corrente n. […], sotto la voce “movimenti avere”, somme per complessive lire 84.833.891, così che dopo tali iscrizioni il saldo finale a debito della correntista era diminuito a lire 53.017.362” La Corte ha poi osservato:
1 – sul primo motivo di gravame,
a) che, all’epoca delle suddette annotazioni, il conto corrente intestato alla fallita non era assistito da affidamenti di sorta, tutti revocati con il telegramma del 20 dicembre 1993; sicché restava rilevante, ai fini della revocatoria, che a tale data mentre il saldo debitore era pari a lire 113.690.987 sul conto erano state iscritte, sotto la voce “movimenti avere”, versamenti per complessive lire 84.833.891 che avevano fatto diminuire il debito fino a lire 53.017.362;
b) che la data delle operazioni non poteva essere individuata, come la banca pretendeva, in quella (anteriore alla revoca) dell’annotazione del foglio commerciale sul “conto evidenza”, attraverso il quale operavano le operazioni del portafoglio commerciale, perché se pur era vero che a partire da tale annotazione il cliente aveva facoltà di utilizzare in via anticipata il ricavo del suddetto portafoglio, non v’era prova in concreto che tale utilizzazione fosse avvenuta, che anzi nell’estratto conto le somme delle quali la curatela, con l’esperimento della revocatoria, aveva richiesto la restituzione, risultavano iscritte tutte sotto la voce “avere” per il cliente;
c) che, anche accolta, per mera ipotesi, la tesi della banca, il risultato non sarebbe cambiato, giacché al fine di stabilire se il conto corrente fosse “passivo” ovvero “scoperto” non sarebbe stato possibile cumulare all’affidamento in conto corrente (per lire 50.000.000) i castelletti per portafoglio commerciale (per lire 70.000.000) e quello per accredito assegni s.b.f. (per lire 10.000.000), ostando a tale cumulo il contrario principio giuridico (è richiamata Cass. n. 1083 del 1997) fondato sulla diversa natura e sulla diversa funzione dell’apertura di credito in conto corrente rispetto al fido per castelletto o per smobilizzo crediti. E a tale (oltre che a quello della contrarietà della prova al disposto del nuovo art. 345 c.p.c.) rilievo circa l’inammissibilità del cumulo conseguiva l’inammissibilità della prova testimoniale richiesta dalla banca sulla circostanza che “all’epoca dei fatti la società […] era affidata con l’apertura di credito e con i due castelletti di sconto”;
d) che, con riferimento all’accredito s.b.f. di ricevute bancarie, la tesi della banca, secondo la quale le parti avevano posto in essere un contratto di sconto ovvero un contratto atipico producente gli stessi effetti dello sconto, era priva di fondamento.
Lo “sconto” – la cui connotazione fondamentale era data dal collegamento funzionale tra l’anticipazione della somma e la cessione pro solvendo del credito sicché è “se non v’era cessione non v’era sconto in senso proprio”- non risultava configurabile in relazione alla consegna di ricevute bancarie perché queste non incorporavano il credito in esse menzionato (Cass. n. 4614 del 1996) e il supposto contratto di finanziamento atipico avente gli stessi effetti dello sconto era smentito da una pluralità di rilievi: che non si rinveniva, nella fattispecie all’esame, l’elemento tipico dell’anticipazione dell’importo del credito con deduzione di interessi; che negli estratti conto e nella distinta di presentazione degli effetti mai tale figura era menzionata mentre le somme riscosse figuravano nella colonna “avere” per la Soc. […]; ; infine, che nel documento del 1 febbraio 1991 (contenente norme particolari per i rapporti contrattuali relativi alla presentazione di portafoglio commerciale con utilizzo anticipato del ricavo in conto corrente) non si parlava mai di cessione di credito bensì soltanto di cessione del portafoglio e, infatti, secondo gli accordi contenuti nel documento, gli accreditamenti s.b.f. avvenivano prima della data prevista per il pagamento e dunque con assunzione da parte della banca della veste di mandataria in rem propriam, donde l’esclusione di una vicenda traslativa del credito del cliente – ciò che dava ragione dell’accreditamento, avente natura di rimessa, e cioè di versamento, dell’importo delle ricevute sul conto corrente della società […]; che, dunque, avveniva ex art. 1713 c.c..
Per tutte queste ragioni, conclude sul punto la Corte di merito, non era ammissibile il capitolo di prova con il quale la Banca intendeva dimostrare natura ed effetti del contratto di presentazione di portafoglio al s.b.f.
Restava dunque confermato, nella sentenza, che trattavasi di rimesse aventi carattere solutorio in quanto destinate a ridurre lo scoperto del conto corrente e per tale natura revocabili ex art. 67 l. fall.;
d) l’ultima osservazione della sentenza, nella disamina del primo motivo di gravame, è relativa ai bonifici provenienti da terzi. La Corte ne conferma la revocabilità con la motivazione che “trattavasi di somme affluite sul conto corrente quando questo era scoperto” e con il richiamo dei principi giuridici affermati da questa Corte di legittimità con le sentenze n. 2353 del 1984 e n. 3919 del 1987.
2. sul secondo motivo di appello, che contrastava la revocatoria con riferimento alle somme portate da ricevute bancarie prima accreditate e poi addebitate sul conto corrente una volta ritornate insolute, la sentenza ha osservato, con motivazione in fatto, che “non vi era coincidenza tra gli importi, né tra le date degli addebiti e degli accrediti e la prova dell’assunto della banca non poteva trarsi da atti di parte informali, quali gli appunti interni della banca, prontamente contestati e non confermati in giudizio”.
Avverso tale sentenza la Banca Nazionale dell’Agricoltura ha proposto ricorso per cassazione.
Resiste la curatela del fallimento, costituitasi con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è articolato in due motivi.
Con il primo motivo la banca ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1842, 1843, 1852 c.c. nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo”.
La censura è svolta attraverso le seguenti proposizioni:
a) la Corte di merito non ha considerato che allorché il fido costituito dal castelletto di sconto viene concesso in fruizione sul medesimo conto corrente sul quale è in essere il fido per scoperto di c.c. e allorché risulta documentato che il fido per castelletto venga utilizzato dal cliente è con riguardo ad entrambi che va determinato lo scoperto di c-c.;
b) la società […] utilizzò il fido di castelletto s.b.f. e utilizzò i crediti anticipati; c) la verifica dello sconfinamento oltre il limite del fido concesso dev’essere condotta avendo riguardo a ciascuna linea di credito;
d) di entrambi gli affidamenti la società […] fruiva sul c.c. ordinario n. […];
e) La Corte si era limitata ad un’affermazione apodittica di esclusione della cumulabilità dei fidi senza esaminare la circostanza se i fidi concessi alla Soc. […] insistessero sul medesimo conto corrente o su conti diversi, per verificare la presunta natura solutoria delle rimesse affluite sul conto corrente.
Tale motivo è infondato.
Le proposizioni sub lett. a, c e d muovono tutte, com’è evidente, dalla premessa indicata sub lett. b (l’utilizzazione del castelletto e delle anticipazioni) premessa che, in fatto, la Corte di merito ha ritenuto non verificatasi (pag. 18 della sentenza). Il punto, ossia l’accertamento di fatto in questione, nemmeno è censurato dalla ricorrente, la quale, limitatasi ad opporre come mera affermazione (pag. 6 del ricorso) che tale ricavo del portafoglio commerciale fu in effetti utilizzato in via anticipata, nemmeno muove contestazioni avverso il decisivo rilievo della Corte, anch’esso in punto di fatto, che, a riprova di tale mancata utilizzazione, soccorreva l’altro accertamento “che nell’estratto conto le somme delle quali la curatela aveva domandato la revoca erano tutte iscritte sotto la voce “vere”. Nella motivazione della sentenza ha dunque assunto rilievo decisivo, per la revocabilità delle rimesse, l’accertamento che “all’epoca dell’annotazione delle rimesse effettuate dalla società poi fallita il conto corrente intestato alla stessa non era assistito da affidamenti di sorta, essendo stati i medesimi revocati con il telegramma del 20 dicembre 1993”. E la conclusione è corretta, sotto il profilo più strettamente giuridico, in quanto conforme al principio di diritto, più volte affermato da questa Corte (v. le sentenze n. 4473 del 1997 e n. 9064 del 1992), secondo il quale “nel caso in cui l’apertura di credito già concessa al cliente sia stata revocata, gli accreditamenti sul conto, dai quali consegue la riduzione o l’elisione del saldo negativo per il cliente stesso, hanno natura solutoria e, in quanto tali, sono revocabili ai sensi dell’art. 67 comma 2 l. fall. come pagamenti di crediti liquidi ed esigibili”.
Ne consegue, ancora, che la proposizione sub lett. e circa la cumulabilità dei fidi diversi concessi alla società fallita e l’accertamento dell’operatività degli stessi su un conto corrente unico ovvero su più conti, svolge un tema del tutto estraneo alla ratio decidendi della sentenza impugnata, che tali questioni ha esaminato in via ipotetica (pag. 19 della sentenza) e con argomentazioni dichiaratamente eccedenti, peraltro richiamandosi all’indirizzo giurisprudenziale di questa Corte sul punto della “non cumulabilità dei diversi fidi, ancorché operanti su un conto corrente unico (v. la sentenza n. 1083 del 1997) al fine di stabilire se il conto fosse scoperto o passivo e di accertare, conseguentemente, la natura – solutoria o meramente ripristinatoria della provvista – delle rimesse effettuate dal correntista (o da terzi).
Con il secondo motivo la ricorrente ha denunziato la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1858 e 2697 c.c. nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia”.
La censura investe quella parte della motivazione della sentenza nella quale la Corte di Appello ha escluso che, con riferimento alla presentazione al s.b.f., fosse intervenuta tra le parti una cessione di credito, ed è argomentata come segue:
a) nel documento (il contratto) contenente le “norme che regolano i rapporti contrattuali relativi alla presentazione del portafoglio commerciale con utilizzo anticipato del ricavo in conto corrente”, l’operazione era chiaramente e testualmente qualificata come cessione del credito pro solvendo e la Corte, nell’interpretazione del contratto, aveva mancato di attenersi alla intenzione delle parti, quale emergeva dal significato delle parole, e aveva altresì mancato di motivare esaurientemente il perché non aveva inteso qualificare l’operazione stessa quale cessione del credito;
b) , erronea, in senso giuridico, era l’affermazione della Corte secondo la quale il contratto di sconto non poteva avere ad oggetto ricevute bancarie.
Sono richiamate le pronunce di questa Corte n. 7194 del 1997, n. 7835 del 1994, n. 6870 del 1994 e n. 9650 del 1990 a sostegno della tesi che anche per le ricevute bancarie si possa parlare di sconto, seppur in senso atecnico o improprio”.
Nel contratto intercorso tra essa banca e la Soc. […] “era descritta l’operatività del fido connesso all’operazione che avveniva con utilizzo anticipato attraverso prelievi allo scoperto sul c-c ordinario di un importo pari alle ricevute bancarie consegnate” ed era espressamente previsto che “alla consegna delle ricevute e alla conseguente annotazione sul conto i crediti si intendevano ceduti alla banca a tutti gli effetti “con la conseguenza che “l’operazione di cessione, con immediato effetto traslativo, si era perfezionata alla data di consegna-presentazione delle Ri.BA. alla banca, e nel momento dell’annotazione sul conto evidenza, perché da tale momento la banca aveva immediatamente anticipato l’intero importo delle ricevute consegnate, aumentando di una pari cifra lo scoperto di conto corrente di cui già la cliente fruiva sul conto corrente ordinario”. Conseguentemente la banca aveva incassato danaro proprio che era legittimata a trattenere.
Sul punto relativo “ agli importi delle tre ricevute bancarie ritornate insolute, prima accreditati e poi addebitate,” la ricorrente deduce che erroneamente la Corte di Appello aveva ritenuto di non dover assumere come prova la contabile di addebito, in quanto “atto interno della Banca”; con ciò la stessa Corte aveva operato una diversa valutazione del medesimo documento, secondo che fosse “di accredito in c-c”, in questo caso valutato come prova di una effettuata rimessa, ovvero di “addebito in c-c”, in quest’altro caso negando al documento stesso ogni valore probatorio.
Anche tale motivo è infondato.
Nel riassumere la motivazione della sentenza impugnata si è posto in rilievo che la tesi della Banca ora ricorrente, secondo la quale “essa aveva diritto di trattenere le somme riscosse dai clienti della società e accreditate sul conto corrente della stessa, trattandosi di importi che, in conseguenza della cessione dei crediti di cui alle ricevute bancarie presentate dalla cliente, erano di sua pertinenza”, è stata disattesa dalla Corte di merito con l’affermazione dell’infondatezza del punto di diritto che costituiva la premessa della tesi stessa, ossia che “le parti avevano posto in essere un contratto di sconto”. La Corte medesima, infatti, ne ha escluso la configurabilità sulla base della duplice ragione giuridica che lo sconto (artt. 1858 e ss. c.c.) comporta necessariamente una cessione del credito e che, invece, la consegna di ricevute bancarie non è in grado di realizzare tale effetto traslativo perché la ricevuta non è riconducibile alla categoria dei titoli di credito, in quanto il credito non incorpora.
Nella parte in cui è diretto a censurare tale conclusione, il motivo di ricorso in esame non offre spunti ricostruttivi della fattispecie tali da indurre questa Corte a discostarsi dal principio di diritto più volte affermato secondo il quale (v. la sentenza n. 4614 del 1996 già richiamata dalla Corte di merito) proprio per l’estraneità della ricevuta bancaria al novero dei titoli di credito e per la sua conseguente inidoneità a trasferire la titolarità del credito, la consegna della stessa deve distinguersi nettamente dal contratto di sconto la cui connotazione fondamentale è proprio nel collegamento funzionale tra l’anticipazione della somma (1858 c.c.) e la cessione pro solvendo del credito, per cui se non v’è cessione non v’è neppure sconto in senso proprio. Nè configurazioni giuridiche diverse, nel senso voluto dalla ricorrente, si traggono, invero, dalle sentenze che la ricorrente stessa ha richiamato (la n. 7194 del 1997 e la n. 7835 del 1994) perché non è in questione la “natura creditizia” dell’operazione che le parti – la banca e il cliente – pongono in essere con la consegna delle ricevute bancarie. Ed infatti, che a tale consegna sia collegata comunque la “collaterale erogazione di una somma a favore di colui che le consegna” (così argomenta la banca ricorrente) è ben possibile e già la sentenza n. 4614-96 lo ha posto in rilievo specificando però che “l’anticipazione dell’importo della ricevuta che la banca faccia al cliente non è correlata direttamente alla natura del documento, ma dipende dalla valutazione che la banca (mandataria) faccia dell’affidabilità del cliente,.” Dunque, operazione creditizia sì, ma non con le caratteristiche e, soprattutto, non con gli effetti giuridici dello sconto, restando comunque escluso che la con,, segna della ricevuta ponga in essere un negozio traslativo del credito.
A ben vedere, la ratio decidendi della sentenza impugnata, sul punto, è tutta in tale rilievo perché anche l’ulteriore disamina delle specifiche pattuizioni contenute nel documento contrattuale del 1 febbraio 1991, che la Corte di merito ha condotto, ponendo a se stessa il problema della eventuale “ attuazione di un contratto di finanziamento atipico avente gli stessi effetti dello sconto”, muove anch’essa, subito giungendo ad una conclusione di segno negativo, dal rilievo preliminare (pag. 22 della sentenza) circa l’impossibilità e la difficoltà di ritenere posto in essere un contratto di tal genere “proprio per l’esistenza della ricevuta bancaria, che non è documento idoneo ad incorporare il credito in essa menzionato” ed è evidentemente assorbita dal rilievo stesso.
Nondimeno sono prive di fondamento le censure che la ricorrente muove allorché addebita alla Corte di aver disatteso il nomen juris che le parti avevano dato al documento contrattuale che aveva regolato la presentazione delle ricevute bancarie al s.b.f. nonché il dato letterale del contratto stesso.
Va premesso che l’interpretazione del contratto, concretantesi nell’accertamento della volontà dei contraenti ed in una indagine di fatto, riservata, quindi, al giudice di merito, può essere censurata in cassazione solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle regole ermeneutiche con la conseguenza che dev’essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice del merito che si traduca solo nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto vagliati dal giudice di merito. È questo un punto di diritto costituente anch’esso jus receptum (in ogni caso, Cass. n. 1632 del 1996 lo ha, ancora una volta, ribadito). È dunque nei limiti suddetti che le censure proposte dalla ricorrente possono essere disaminate.
Argomenti tali da contrastare, sul piano più strettamente giuridico, la ricostruzione del regolamento contrattuale contenuto nel documento 1 febbraio 1991 in termini di “mandato in rem propriam” non è possibile ricavare dalla sentenza di questa Corte n. 7835 del 1994, cui la ricorrente si richiama, perché il carattere oneroso della utilizzazione anticipata, attraverso prelievi allo scoperto sul conto corrente ordinario, di importi pari alle ricevute bancarie consegnate è stato escluso dalla Corte di merito nel punto della motivazione in cui (pag. 22) essa ha rilevato che nella fattispecie non si rinveniva il dato tipico dello sconto (o di altro negozio atipico che ne riproducesse gli effetti sostanziali) costituito, appunto, dalla onerosità: la deduzione anticipata degli interessi.
Ancora può osservarsi che la stessa anticipazione effettiva dei suddetti importi è rimasta esclusa dalla Corte di merito con un accertamento di fatto (“dall’annotazione del foglio commerciale sul conto evidenza scattava la possibilità per il cliente di utilizzare in via anticipata il ricavo del portafoglio commerciale, ma non vi è prova in atti che tale utilizzazione, costituente una facoltà a norma dell’accordo del 1991, sia in concreto avvenuta” e “le somme riscosse figurano tutte nella colonna avere per la società […]”) al quale la ricorrente semplicemente ha opposto l’affermazione di segno contrario “che dal momento della consegna delle Ri.BA. la Banca ha immediatamente anticipato l’importo delle Ri.BA. consegnate”.
Infine quegli elementi letterali del regolamento contrattuale che la ricorrente richiama, da un lato ben sono stati tenuti in conto dalla Corte di merito allorché ha rilevato che nel documento del 1 febbraio 1991 si parlava di “cessione del portafoglio” commerciale e non di cessione di crediti, e dall’altro – con riferimento alle espressioni enunciative degli obblighi assunti dalla cliente “rinuncia al proprio diritto in merito” e “si obbliga a non disporre, non ritenere eventuali pagamenti di terzi” non appaiono contrastare quella ricostruzione della cessione del portafoglio come mandato in rem propriam, cui la Corte di merito è pervenuta, perché assolutamente non risultano incompatibili con il carattere irrevocabile (art. 1723 c.c., ma salvo il patto contrario) del mandato conferito anche nell’interesse del mandatario (v. sul punto: Cass. 4432 del 1977: “ove il mandato sia conferito anche nell’interesse del mandatario, il mandante non perde la disponibilità del rapporto sostanziale affidato in gestione al mandatario, costui non acquista la titolarità della situazione sostanziale che è e rimane del dominus” nonché Cass. n. 3157 del 1976: “nel mandato ad esigere un debito del terzo, che il mandante conferisce al proprio creditore anche nell’interesse di quest’ultimo, il terzo debitore può pagare, con efficacia liberatoria, tanto al mandante quanto al mandatario che rappresenti il primo, ove sia rimasto estraneo agli accordi tra il mandante e il mandatario”). In definitiva, la Corte di merito non ha violato il canone interpretativo fondamentale di cui all’art. 1362 c.c. nell’interpretare la consegna delle ricevute bancarie (il portafoglio commerciale) come mandato in rem propriam, né ha violato la lettera del documento contrattuale che, anzi, detta interpretazione non potrebbe restare che confermata ulteriormente proprio da quell’intestazione (il nomen juris) che il ricorrente richiama.
Anche sul punto della sentenza relativo alla invocata esclusione dalla revocatoria degli importi prospettati come corrispondenti a tre ricevute bancarie (alla revoca delle relative rimesse) “ritornate insolute”, le censure della ricorrente sono rivolte a sostenere il valore probatorio delle contabili di addebito, mentre la ratio decidendi è tutta nel rilievo in punto di fatto secondo il quale la mancata coincidenza tra gli importi e tra le date degli addebiti e degli accrediti impediva di ritenere che gli importi indicati si riferissero a ricevute “tornate insolute”.
Il ricorso va dunque rigettato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in L. 130.000 oltre lire 4.000.000 per onorario.
(Omissis).

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