Gli Enti Locali tra pandemia, informatizzazione e programmazione: una pagina aperta

Avv. Giovanni Dainese

Ho avuto l’impressione, in questi mesi di “pandemia”, della mancanza di un appropriato coinvolgimento degli Enti locali sul versante della collaborazione e della partecipazione ma, soprattutto, della programmazione nazionale. A me pare, se la mia impressione è esatta, che questo atteggiamento vada contro l’impianto Costituzionale, nonché contro a quanto contenuto nella Carta Europea delle autonomie (1985) che prevede tra l’altro: “Gli enti locali dovranno essere consultati, per quanto possibile, in tempo utile ed in maniera opportuna, nel corso dei processi di programmazione e di decisione per tutte le questioni che li riguardano direttamente”.
Ho notato, in particolare, che i rappresentanti degli Enti locali (Anci e Upi), quando si operavano le grandi scelte a livello centrale, nella c.d. cabina di regia, fossero coinvolti solo di riflesso. Oltre allo Stato, evidentemente, primo soggetto interessato, solo le Regioni avevano un ruolo, come mi pare giusto che sia, mentre gli Enti locali venivano, forse lo sono ancora, interessati nella sola fase di gestione.
Questa premessa, necessaria, mi dà l’occasione per aprire una finestra su ruoli, compiti e partecipazione istituzionale, partendo dall’attuale situazione emergenziale.
Le Regioni, correttamente, rivendicano una loro presenza in base alle competenze e funzioni, tutt’altro che marginali, attribuite, in particolare, dall’art.17, comma 3, della Costituzione.  Come risaputo, fatte salve le materie in cui lo Stato ha competenza esclusiva (art.117 comma 2), compete alle Regioni, con riferimento alle materie concorrenti, pronunciarsi legiferando o delegando, facendo attenzione a non “scontrarsi” con i poteri e le prerogative Statali. Il discrimine non è, però, sempre chiaro e definito. E’ un percorso, infatti, che non è mai stato agevole, specie ora nell’ambito pandemico. Nelle materie di legislazione concorrente – sempre ai sensi dell’articolo 117, comma 3, “Spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Mentre al comma 4 dell’art.117 si dice:” Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.
Questo è il quadro costituzionale abbozzato, nel cui ambito cercherò di fare alcune brevi considerazioni.
Parlando di Sanità, venendo al problema che ci interessa in questo momento, secondo l’interpretazione della migliore dottrina e giurisprudenza, spetta allo Stato decidere sui livelli essenziali di assistenza e poi stabilire il budget da dare alle Regioni per la gestione delle strutture sanitarie.
Il sistema, purtroppo, si presta ad interpretazioni perché, dicono alcuni osservatori, troppo “elastico”, con le conseguenze che, purtroppo, conosciamo, che hanno portato a un elevato contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni avanti alla Corte.[1]
Succede, di frequente, che diversi compiti e funzioni, prima programmati a livello centrale e regionale, vengano successivamente, a “cascata”, delegati agli enti locali i quali, per poterli svolgere nel modo migliore, chiedono il sostegno all’associazionismo (terzo settore e volontariato) per far fronte ad una loro gestione articolata e composita. L’esito più evidente di questo sistema, descrive, tra l’altro, una diversità nella gestione di servizi da Comune a Comune perché gli enti locali sono “strutturalmente” differenti (grandi, medi, piccoli, etc.) con l’inevitabile disparità di trattamento fra i cittadini, a volte anche della stessa regione e per gli stessi servizi. È appena il caso di rammentare, che vi sono realtà comunali che presiedono territori articolati e di difficile gestione. Si pensi ai Comuni montani ma pure a quelli di pianura quando insistono su aree vaste e di difficile omologazione. Sono quei Comuni- comprensori, formati da un piccolo centro e da tante frazioni che occupano territori estesi e per questo di non facile gestione a causa della loro disarticolazione territoriale che, per affrontare situazioni disagiate, devono necessariamente sostenere costi maggiori.
Non bisogna poi dimenticare che in capo ai Comuni esistono, oltre a quelle delegate, competenze e funzioni amministrative proprie (art. 118 comma secondo della Costituzione) che solo gli organi locali possono e devono esercitare. Per tutte, cito il potere di ordinanza contingibile ed urgente in materia sanitaria, che permane in capo ai Sindaci e che nessuna norma nazionale ha abrogato (artt. 50 e 54 del D.Lgs. 18 aprile 2000, n. 267). Queste funzioni sono tutte rivolte alla salvaguardia della salute pubblica ed esercitate, per quanto di competenza, da organi diversi. Ai sensi dell’art. 118, comma primo, della Costituzione, tutto deve svolgersi sulla base  “dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.
Per le esposte motivazioni, insisto, la regia deve essere nazionale ma il coinvolgimento riguarda tutti gli attori coinvolti.
Apro una ulteriore riflessione sulla comunicazione istituzionale che, in questo periodo di crisi pandemica, credo sia appropriata e potrebbe essere un modo per cercare di salvaguardare le diversità territoriali e contribuire nella maniera migliore all’erogazione dei servizi pubblici locali. È necessario che i Comuni comunichino gli interventi che intendono fornire per aiutare e sostenere situazioni di disagio sparse nei loro territori. Leggendo la cronaca di questo periodo, constatiamo che tutti gli Enti locali si sono attrezzati e, direi in molti casi, prodigati, mediante le conferenze stampe e i comunicati stampa, attraverso i quali i giornali locali si sono fatti interpreti di informare la cittadinanza sulle decisioni comunali. Sottolineo, però, che, malgrado la buona volontà dei Comuni e dei giornali, la notizia non sempre è stata capillare e chiara e, in ogni caso, non istituzionale.
I Comuni pur essendosi attrezzati al meglio, in tutti i settori d’intervento, non sempre sono riusciti pienamente nel loro intento perché, oltre alla difficoltà di comunicazione, hanno dovuto fare i conti con la carenza di fonti finanziarie spesso limitate a pochi interventi economici.
A livello centrale, nel gestire le conseguenze della pandemia, probabilmente, non si è tenuto debitamente conto delle differenze tra Comune e Comune con il risultato che i Comuni di grosse entità demografiche e quindi più ricchi, sono intervenuti con importanti aiuti economici per sopperire alle esigenze dei loro cittadini in difficoltà e, invece, altri Comuni, magari viciniori, meno ricchi, non sono ugualmente riusciti ad aiutare, in modo soddisfacente e a volte solo sufficiente, i loro concittadini.
Per evitare tutto questo, si dovevano integrare i fondi concessi, avendo cura di differenziarli a seconda delle caratteristiche proprie dell’ente, come succitato, rafforzando, in tale maniera, gli uffici di assistenza sociale dei Comuni e permettendo, agli operatori comunali di effettuare interventi capillari e domiciliari, informando e aiutando nell’immediatezza i loro concittadini in difficoltà.
Questa opera di omologazione fra i bisogni della cittadinanza richiede, come per gli altri casi, una sorta di regia trasversale, per rendere operativo il principio della sussidiarietà che definirei circolare.
La pandemia ha pertanto, sollevato il coperchio “di Pandora” della situazione, che appare tuttora nevralgica e che abbraccia l’intero nostro Paese.
E’ stato ed è veramente commovente toccare con mano scene di volontariato messo in atto per sopperire ai limiti istituzionali delle realtà locali (sussidiarietà orizzontale autentica).
Questa pagina di storia locale, registra la differente geografia del nostro territorio e si interseca con aspetti di indispensabile programmazione. Partire dal basso potrebbe essere più difficoltoso all’inizio, ma sicuramente più equo sul piano della realizzazione dei risultati, tenendo conto che questo modus operandi, raggiungerebbe uno spettro interventistico più vasto e analitico.
I fatti legati alla situazione sanitaria, oltre ad aver messo il dito sulla necessaria interazione tra autorità pubbliche e cittadini, hanno fatto risaltare, con forza, il bisogno di una necessaria comunicazione efficace ed efficiente, nonché quello della rivisitazione della “macchina pubblica” e della burocrazia connessa.
Oggi si parla, insistentemente, di transizione digitale. Ho constatato, soprattutto in taluni settori tradizionali di competenza comunale, come quello edilizio, che si sono avuti dei progressi in tal senso, però, permangono molte difficoltà che, in taluni casi, sono dovute pure a resistenze culturali al cambiamento da parte degli stessi operatori. Di pari passo manca un obbligo all’aggiornamento su tali processi. I bilanci dei Comuni hanno tagliato, spesso, i fondi per la formazione. Alcuni Sindaci evidenziano, direi con acume, che se questo processo di transizione digitale facilitasse effettivamente l’erogazione di servizi, sempre più cittadini sarebbero stimolati ad apprendere il nuovo linguaggio. Per questo occorre andare loro incontro aiutandoli ad imparare e conoscere i nuovi strumenti informatici. La c.d. nuova alfabetizzazione diventa dunque un’urgenza. Saper destreggiarsi nel loro uso consapevole è, sicuramente, un inderogabile bisogno di socialità e un’arma a volte indispensabile per affrontare le calamità non ultima quella che viviamo. Occorre mettere in grado il cittadino di relazionarsi con il suo Comune in ogni momento, ed è questo un aspetto di libera convivenza e un modo per creare e mantenere una comunità viva. Non possiamo comunicare solo per proclami. Si è visto anche questo all’inizio della pandemia, dove giravano per le strade auto con gli altoparlanti per dare le notizie e le avvertenze. Questo va bene ma deve essere uno strumento che si coniuga con quello più veloce del mezzo informatico.
I dati, a tale riguardo, purtroppo, rilevano, ancora, una arretratezza. Non in tutti i Comuni, per esempio, si può compiere l’intero iter procedurale on line (inizio e conclusione di un procedimento amministrativo o di un servizio).  Secondo alcuni dati Istat, queste differenze sono più marcate tra i Comuni grandi, che posseggono tecnologie più avanzate, rispetto a quelli di medie e piccole dimensioni.  Si nota, in ogni caso, una scarsa diffusione di strumenti tecnologici nuovi, così come ancora carente è la formazione in materia, mentre, di contro, è tuttora alta la ricerca del supporto esterno (verso società specializzate). Si continuano ad utilizzare procedure analogiche (timbri, etc.). E’ necessario, pertanto, valorizzare, con metodi coerenti e persuasivi, il bisogno di informatizzare e, quindi, di finanziare tali necessità. In questo modo si riesce altresì a rendere più significativo il rapporto tra economia (imprese) e pubbliche amministrazioni rafforzando il legame triangolare tra territorio, imprese e famiglie. La perdita di lavoro, di questi due anni appena trascorsi, richiede sforzi congiunti per essere superata ma se i supporti delle amministrazioni locali vengono a mancare anche la crescita economica fatica maggiormente a riprendersi.
Per facilitare la transizione è importante partire dalla creazione, all’interno dell’ente, della figura del c.d. responsabile per la transizione al digitale (RTD, come, del resto, previsto dal codice dell’amministrazione digitale; D.Lg.vo 7 marzo 2005, n. 82 e s.m. e.i.) che costituisce una leva per l’individuazione degli adeguamenti tecnologici e organizzativi importanti nel nuovo ambito lavorativo della p.a. (es. smart working, orario flessibile, turnazione mirata nei servizi di vigilanza ed esterni, etc…).
Negli enti locali, dove manca la dirigenza, il Responsabile alla transizione (RTD) può essere una figura apicale istituita anche mediante le formule dell’associazionismo (unione dei Comuni, convenzioni e simili). Si intuiscono, da questi brevi spunti, che malgrado le difficoltà, per le piccole realtà locali, ad organizzarsi digitalmente, la strada è già segnata e presente, in modo significativo, sul piano operativo, nei Comuni di grosse dimensioni.
La lentezza dell’operare questa transizione, latu sensu, è dovuta pure alla carenza di personale in cui si trovano ad operare i dipendenti comunali, soprattutto in questi ultimi decenni, costretti a coprire, in qualche maniera, importanti buchi di organico. La corsa al terzo settore e al volontariato organizzato è stata una prima immediata riposta, direi necessaria e intelligente, ma non può’ essere l’unica. La carenza di personale è diventata una malattia nociva all’interno degli enti locali. Per assumere un dipendente nella p.a., quando la legge lo consente, occorre il concorso pubblico e, anche se ridotto, nei tempi e nei modi, all’essenziale, questo può significare, comunque, diversi mesi se non qualche anno di stasi. Nella pandemia i volontari, operanti nelle realtà locali, per superare a queste mancanze, endemiche, di personale interno, si sono prodigati, spinti e motivati dall’amore del proprio territorio, per intere giornate a fianco di emergenze umane in appoggio al personale sanitario e amministrativo, organizzando turni, a volte massacranti, garantendo così lo svolgersi del servizio pubblico essenziale e ordinario.
Si parla, direi da anni ormai, di spesa storica come parametro inattendibile e concausa di tali inefficienze. A detta di molti operatori e studiosi, si tratta di un “metro” da rivedere perché non è perequativo vista la disomogeneità degli enti locali. Si è cercato, con l’ausilio delle scienze aziendalistiche, ad una misurazione reale dell’efficienza, efficacia ed economicità del servizio reso, ma tutto è rimasto fermo alle buone intenzioni. Non mi pare, poi, che siano stati potenziati e attivati controlli mirati per verificare se quel sevizio ha le carte in regola. Ho visto, invece, grandi dispute e letto interessanti teorie economiche (algoritmi e simili) ma non ho notato grossi risultati. Forse basterebbe attuare meglio il principio della partecipazione. Se, per chiarire il pensiero, un asilo nido comunale funziona o meno si sono sentiti i genitori?
Sarebbe opportuno che tali controlli partecipativi, fossero previsti da una norma di legge o quanto meno da un provvedimento amministrativo, contenente regole e modalità obbligatorie. Tale previsione sarebbe opportuna proprio ora che si parla di PNRR (piano nazionale di ripresa e resilienza) per l’erogazione dei fondi e per la validazione dei progetti.
Questo è un altro esempio di partecipazione autentica dal basso che andrebbe collegato anche al principio di leale collaborazione e buon andamento.[2] Ricordo, infine, che con la riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3 del 2001), si era cercato di attuare una autentica cooperazione fra Regioni ed enti locali[3] basata su tali principi[4].
Sono esemplificazioni legate, indiscutibilmente, all’autonomia degli Enti locali, che navigano ancora in mare aperto e soggetti alle burrascose ventate del cambiamento. Fuori metafora, gli strumenti operativi ed istituzionali, legati ai principi di sussidiarietà, differenziazione adeguatezza, scritti nell’art. 118 della nostra Costituzione, possono aiutare a trovare formule operative che partono dalle realtà locali (come vuole l’art. 114 della Cost.ne) per integrarsi in modo programmatico e autorevole con gli altri soggetti istituzionali altolocati. Così operando potremmo contribuire a dare qualche risposta alle emergenze ma anche all’ordinaria amministrazione e permettere agli enti locali di continuare ad erogare i servizi pubblici locali necessari in modo soddisfacente per il raggiungimento e mantenimento del bene comune altrimenti di difficile attuazione o compromesso.

Giovanni Dainese

[1]  Cfr. Corte Costituzionale, sentt. n. 6 e 423 del 2004. (Anche per le argomentazioni contenute relative ad un buon funzionamento di un sistema basato su più livelli istituzionali).
[2]  S. Bartole, La Corte Costituzionale e la ricerca di un contemperamento fra supremazia e collaborazione, cit., pag. 587; Cfr. G. C. De Martin, Quali autonomie e quale unità della Repubblica, in Le autonomie territoriali. Dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale. Atti del convegno, Roma 9 gennaio 2001.
[3]  Così definito «modello del regionalismo cooperativo». A causa delle difficoltà insorte si è però introdotto il comma 4 all’art 123 che stabilisce che “In ogni Regione, lo Statuto disciplina il Consiglio delle Autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali”. Tutti gli Statuti regionali dovrebbero, infatti, contenere tale previsione.
[4] Analoghi principi sono contenuti nella legge 241 del 7 agosto 1990 e s.m.e.i.

 

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