Posizione del privato leso dalla violazione di norme urbanistiche e regolamentari nei rapporti di vicinato

Il privato che si ritenga leso da una edificazione realizzata in violazione di norme urbanistiche e edilizia in ambito di vicinato ha titolo per chiedere all’amministrazione l’adozione di provvedimenti sanzionatori e l’amministrazione ha l’obbligo di pronunciarsi.

 

Processo amministrativo – Azione contro il silenzio o l’inerzia nella adozione di provvedimenti sanzionatorio in presenza di violazioni di norme urbanistiche ed edilizie – Obblighi dell’amministrazione e poteri del giudice.

 

Quando si forma il silenzio, o inerzia, nel provvedere su un’istanza sulla quale l’amministrazione ha l’obbligo di pronunciarsi, l’amministrazione medesima non può ritenersi adempiente con l’adozione di provvedimenti che, per il loro contenuti e effetti istruttori o soprassessori, non concludono il procedimento. Con l’accoglimento del ricorso il giudice, sussistendone i presupposti, può entrare nel merito della pretesa dedotta in giudizio e in accoglimento dell’istanza, imporre all’amministrazione di disporre i rimedi che ne conseguono con il tramite del commissario ad acta in caso di ulteriore e persistente inerzia.

                                                                                                                                                                                           

Adozione di provvedimenti sanzionatori in materia edilizia su istanza del privato che si ritenga leso da edificazione abusiva e intervento del giudice amministrativo in caso di omissione o inerzia.

La sentenza in esame affronta il tema dei rimedi offerti al privato a fronte di abusi edilizi in presenza di ritardo o omissione nella adozione di provvedimenti sanzionatori, e del potere affidato al giudice di ordinare all’amministrazione di provvedere e per essa con un commissario ad acta.

 

La vicenda.

Il titolare di una importante impresa operante nel settore agroalimentare, rilevato che il vicino ha realizzato un edificio a distanza dalla sua proprietà inferiore ai limiti imposti dallo strumento urbanistico e dal regolamento edilizio, ha rivolto istanza all’amministrazione comunale affinché adottasse i conseguenti provvedimenti sanzionatori. 

Di lì a qualche tempo l’amministrazione comunicava che era stata incaricata la polizia municipale di svolgere accertamenti. Non essendo seguito alcun provvedimento, il privato ha impugnato il perdurante silenzio chiedendo che il TAR, in accoglimento del ricorso, dichiarasse l’obbligo dell’amministrazione di ordinare la riduzione in pristino e, nel caso di inottemperanza, acquisire l’immobile con il sedime alla proprietà pubblica, e con nomina di un commissario ad acta se fosse seguita ulteriore inerzia.

 

La sentenza.

La sentenza in commento affronta aspetti di diritto sostanziale e processuale e anche il tema dei rapporti fra funzione giurisdizionale e azione amministrativa.

Quanto ai primi, viene affrontato il problema della obbligatorietà dell’azione sanzionatoria in presenza di abusi edilizi, e la rilevanza che ha nei rapporti di vicinato il mancato suo esercizio, con le facoltà che può esercitare il privato che ne riceva danno. Segue il tema dei modi e termini dell’azione amministrativa la cui inosservanza configura violazione di legge sanzionata in sede giurisdizionale e, infine, come il giudice può imporre all’amministrazione di esercitare il potere sanzionatorio.

A fronte della mancata adozione di provvedimenti sanzionatori nei termini che la legge stabilisce per la conclusione del procedimento, il TAR ha dunque ordinato all’amministrazione di provvedere, disponendo altresì la nomina di un commissario ad acta in caso di ulteriore inerzia.

 

Il commento. 

L’obbligo di adozione di provvedimenti sanzionatori.

In presenza di realizzazione di opere edilizie in assenza di titolo abilitativo o in difformità di esso le norme del T.U. dell’Edilizia approvato con D.P.R. 380/2001 prevedono l’adozione di misure correlate alla tipologia e rilevanza dell’abuso. In merito alla loro applicazione vi era un orientamento secondo il quale l’obbligatorietà dell’azione sanzionatoria poteva essere rimossa in presenza di ragioni ostative, prima delle quali il tempo trascorso dal compimento dell’abuso che poteva configurare il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà rispetto a un comportamento acquiescente, e per violazione del principio di affidamento(1).

Orientamento contrastato da altro sulla insussistenza di una qualsivoglia facoltà discrezionale[2], e che è stato riaffermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato secondo cui l’obbligatorietà, già presente nella norma dell’articolo 31 del D.P.R. 380/2001, è stata rafforzata dall’articolo 17 del D.L. 12 settembre 2014, n. 133, che prevede responsabilità penali, disciplinari, e amministrative contabili, in capo al funzionario che omette o ritarda l’adozione di provvedimenti sanzionatori[3].

Stabilito dunque che l’amministrazione ha l’obbligo di attivare un procedimento sanzionatorio, questo deve essere concluso nei modi e nei termini stabiliti dall’articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e s.m.i.

Aggiunge la sentenza in commento che il termine non può essere eluso con l’adozione di un atto meramente soprassessorio, interlocutorio, o endoprocedimentale[4].

L’omissione o il ritardo nell’adozione di provvedimenti sanzionatori e l’interesse del privato a sollecitarla.

E’ qui considetata la posizione di un privato che intravede abusi nella edificazione ad opera di un vicino, con l’individuazione dei mezzi dei quali dispone per contrastarla e quali sono i poteri del giudice che ne sia investito.

Considerato che l’articolo 31 del codice del processo amministrativo offre un rimedio processuale a chi chiede che siano rimossi gli effetti del silenzio o dell’omissione a provvedere da parte dell’amministrazione, la sentenza accerta l’esistenza dei presupposti nel caso preso in esame. Viene al riguardo affermato che, perché sussista un interesse qualificato e protetto, occorre che l’istante ricorrente si trovi in una posizione di vicinitas rispetto all’opera che assume essere stata abusivamente realizzata, anche se non nel solo rispetto delle distanze prescritte sotto il profilo civilistico dalla Sezione VI del Libro II del codice civile[5].

[1] Cons. St. Sez.VI, 29 novembre 2012, n. 6072.

[2] Cons. St. 21 ottobre 2003 n. 6531.

[3] Cons St. Ad. Pl. 17 ottobre 2017, n. 9.

[4] TAR Lazio – Roma – Sez. I, 30 maggio 2017 n. 6402. Quanto all’annullamento in autotutela di un permesso di costruire in sanatoria, viene affermato che è illegittimo se intercorre un lungo lasso di tempo e se non sono esternate le ragioni di pubblico interesse che lo giustificano: Tar Campania – Salerno, Sez. II, 28 gennaio 2019, n. 199.

[5] Articoli da 873 a 886.

Quanto alla vicinitas, si deve intendere quel collegamento, anche se non di stretta contiguità, nell’ambito di un tessuto urbanistico e edilizio che l’edificazione abusiva compromette[1], e non solo teso ad invocare un principio astratto di legalità[2].

Si è anche precisato che l’interesse all’azione diretta all’adozione di provvedimenti repressivi non merita tutela se dall’accoglimento dell’istanza non deriva alcun concreto beneficio[3].

Occorre tuttavia considerare che l’obbligo di verifica dell’amministrazione, e poi del giudice onde valutare la fondatezza della pretesa nella previsione del terzo comma dell’articolo 31 c.p.a., concerne solo gli aspetti di legittimità segnalati dall’istante e nei limiti in cui detti aspetti riguardino violazione dell’interesse pubblico in materia di edilizia e urbanistica e anche una lesione di interesse legittimo, senza interferire nei rapporti privatistici sottostanti. Il giudizio sul silenzio-adempimento deve infatti rimanere nell’ambito, neppure con accertamento incidentale, della giurisdizione amministrativa[4].

E’ anche aperto un dibattito sulla necessità che sussista l’ulteriore presupposto del concreto pregiudizio che i lavori abusivi siano anche produttivi di danno, ovvero se la esistenza di danni debba essere dimostrata in concreto[5].

Quanto ai limiti temporali per l’esercizio del potere di autotutela, vi è un orientamento del TAR per la Lombardia secondo cui il ricorso al relativo potere, quando sollecitato dal privato incontra lo sbarramento dell’articolo 21 nonies della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo introdotto dal D.L. 12 settembre 2014 n. 133 convertito in legge 11 novembre 2014 n. 184. Vi si aggiunge, sotto altro profilo, che “(…) oltre ai limiti legislativamente fissati, il ricorso all’esercizio del potere di autotutela incontra anche il limite della discrezionalità amministrativa. Giova infatti richiamare il principio generale (costantemente ribadito) che governa l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione, valido anche nell’ipotesi in cui la richiesta di autotutela riguardi titoli abilitativi edilizi rimasti inoppugnati, e cioè che non è configurabile alcun obbligo giuridico di provvedere espressamente sulla richiesta di annullamento presentata dagli interessati, la quale ha natura meramente sollecitatoria. Tale obbligo, infatti, contrasterebbe con le ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire autoritativo della P.A., nonché con il principio di inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, che non possono essere elusi mediante l’impugnazione del silenzio formatosi su un’istanza diretta a sollecitare l’adozione di annullamento o di modifica di precedenti determinazioni non impugnate nei termini e nelle forme di rito (…)”. La sentenza prosegue  con il rilevare che “(…) Solo nella specifica ipotesi di presentazione di DIA o di SIA reputate illegittime, i soggetti che si considerano lesi dall’attività edilizia possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’ente locale e, in caso di inerzia di quest’ultimo, esperire l’azione avverso il silenzio ex art. 31 CPA, ma solo in quanto DIA e SCIA non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili e l’unica azione oggi concessa agli interessati è quella avverso il silenzio della P.A. ai sensi dell’articolo 19, comma 6 ter della L. 241/1990 (…)”[6] [1] Cons. St. Sez. IV, 11 giugno2015 n. 2861, secondo cui l’elemento della vicinitas è sufficiente a radicare la legittimazione ad impugnare il titolo edilizio quando la tutela invocata dal vicino diventa di per se stessa strumentale alla necessità di proteggere valori primari quali la sicurezza e l’ambiente.

[2] Cons. St. Sez. IV, 30 agosto 2018, n. 5115; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 3 ottobre 2018, n. 5771.

[3] TAR Campania, Napoli, Sez. III, n. 5771/cit.

[4] Cons. St., Sez. III, 21 giugno 2018, n 3858, e Sez., 8 maggio 2018, n. 2751.

[5] Ne dà conto il TAR dell’Umbria con la sentenza n. 16/2019 cit. richiamando sul primo dei due orientamenti. Fra le altre, Cons. St. Sez. VI, 10 settembre 2018 n. 5307 e TAR Emilia Romagna, Parma, 8 marzo 2017, n. 91 e, sul secondo, Cons. St. Sez. IV, 22 giugno 2018 e TAR Veneto, Sez. II, 21 marzo 2018 n. 324.

[6] TAR Lombardia, Brescia sez. II 18 marzo 2019 n. 236

 

I poteri del giudice sull’istanza del privato.

 Il privato che ha interesse a rimuovere l’omissione o il ritardo dell’amministrazione ha titolo per adire il giudice amministrativo nei modi e nelle forme dell’articolo 31 del codice del processo amministrativo.

L’accoglimento del ricorso porta, in applicazione dell’articolo 31, c. 3 a sancire l’illegittimità del comportamento tenuto dall’amministrazione e, quali statuizioni conseguenti all’obbligo di provvedere in un termine prefissato, la nomina di un commissario ad acta per l’adozione dei provvedimenti sanzionatori. Si riflette infatti nel giudizio l’obbligatorietà dell’azione sanzionatoria di cui più sopra si è detto.

Vi sono tuttavia dei limiti, non essendo consentito che l’interesse del vicino sia tutelato al punto da poter ottenere dal giudice che l’ordine all’amministrazione di adottare provvedimenti repressivi contenga anche l’individuazione delle specifiche sanzioni, e quindi ricomprendere nel giudizio ex articolo 31 c.p.a. anche la tutela di interessi pretensivi. Verrebbe in questo modo affidato al giudice il potere di provvedere con atti amministrativi ed anche con atti normativi[1].

Non giova quindi invocare il pressoché analogo, sul piano processuale, procedimento regolato in altra parte del codice del processo amministrativo, all’articolo 113 e seguenti sulla sorte dei contratti pubblici in caso di aggiudicazione illegittima, ove sono consentiti al giudice margini di discrezionalità che altrimenti appartengono all’amministrazione.

[1] TAR Umbria, Sez. I, 10 gennaio 2019 n. 16. E’ anche il caso di un ricorso, non accolto, avverso silenzio-adempimento per non avere una pubblica amministrazione provveduto ad emanare un regolamento sulla protezioni da radiazioni emesse da apparecchiature di telefonia cellulare (TAR Lazio, Sez. III Quater, 15 gennaio 2019 n. 500).

 

Opere assentite con SCIA lesive.

 Una disamina a parte, e assai ampia, richiederebbe il caso del privato che rileva che le opere del vicino sono state edificate a seguito di presentazione di SCIA ma in assenza dei presupposti. In questa ipotesi non ci si trova di fronte ad una edificazione abusiva da sanzionare tout court, ma ad una situazione di fatto derivante da una dichiarazione dalla quale sono stati fatti discendere effetti abilitativi. A fronte dell’assenza di provvedimenti sanzionatori conseguenti all’accertamento dell’abuso, il vicino che si ritenesse leso può intimare all’amministrazione di provvedere attivando il giudizio di cui all’articolo 31 del codice del processo amministrativo negli stessi termini e con i medesimi effetti della sentenza in commento.

Il problema della prescrizione dell’azione sanzionatoria, e della quale sopra si è detto nei confronti di opere realizzate in contrasto con norme urbanistiche e/o edilizie, si pone quando le opere medesime sono assistite da titolo abilitativo espresso o legittimate dall’intervenuto consolidamento di SCIA, e un privato ne abbia danno.

Il rimedio di cui il privato dispone è quello di sollecitare l’amministrazione ad attivare l’autotutela prevista dall’articolo 21-nonies della legge 7 agosto 1990 n. 241 sulla riforma del procedimento amministrativo quando vi sia un titolo abilitativo espresso, ovvero a promuovere accertamenti sulla sussistenza dei presupposti legittimanti che conducono all’adozione di provvedimenti sanzionatori nella previsione dell’articolo 19, c. 4, della legge 241/1990 nel testo ora vigente che disciplina la SCIA.

Alla luce di queste norme, per l’ipotesi di annullamento in autotutela di un titolo abilitativo espresso, l’articolo 21-nonies della legge 241/1990 richiamata impone un termine per la conclusione del procedimento (ragionevole e comunque non superiore a diciotto mesi), mentre per la rimozione degli effetti della SCIA il termine non è normativamente regolato, se non per il caso del tempo della conoscenza da parte del privato della intervenuta edificazione contra legem, con l’osservanza di termini decadenziali per l’esercizio delle azioni che ne derivano. Tempi e modi di tutela degli interessi del vicino che sono quindi difformi a seconda dei titoli e delle modalità dell’edificazione.

Di questa discrasia si è fatto interprete il giudice amministrativo che ha rilevato nelle norme richiamate profili di incostituzionalità muovendo dalla annotazione che in caso di SCIA  “(…) non è manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’articolo 19 comma 6-ter della L. n. 241 del 1990 (…)  nella parte in cui consente a terzi lesi da una SCIA edilizia illegittima di esperire “esclusivamente” l’azione di cui all’art. 31, commi, e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, e, ciò, soltanto dopo d’avere sollecitato l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione. Per una tutela piena ed effettiva della loro posizione giuridica, infatti, i terzi interessati dovrebbero avere la possibilità di azionare gli ordinari rimedi giurisdizionali azionabili avverso le iniziative edilizie illecite altrui, qualunque sia la modalità di acquisizione del titolo legittimante, senza dover essere costretti a dover richiedere, prima di agire, l’intermediazione dell’autorità pubblica, e senza essere soggetti, dopo avere agito in giudizio – per il mero decorso del tempo concesso all’amministrazione per attivare il potere inibitorio – ai forti limiti di tutela giurisdizionale derivanti dall’intermediazione aleatoria all’esercizio del potere discrezionale di autotutela. Al contrario (…) è evidente che il legislatore del 2011, introducendo il comma 6-ter in coda all’articolo 19, ha consapevolmente precluso al terzo interessato l’unica possibilità di intervenire, tramite declaratoria giudiziale di illegittimità, sulla conclusione negativa del procedimento di controllo dei presupposti avviato dall’amministrazione a seguito della segnalazione certificata (…)”[8].

Nel caso di SCIA senza i presupposti, il giudice chiamato a decidere su un ricorso contro il silenzio o l’inerzia a provvedere dell’amministrazione volto a ottenere l’adozione provvedimenti sanzionatori incontra dunque una forte limitazione nell’esercizio del potere che il terzo comma dell’articolo 31 del codice del processo amministrativo gli affida. Gli è infatti precluso pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio se la pretesa medesima non è più tutelabile in dipendenza di intervenuta decadenza dell’azione amministrativa.

La questione è stata decisa dalla Corte Costituzionale con la sentenza 18 marzo 2019 n. 45 che, condividendo le perplessità dei giudici remittenti, ha rivolto un invito al Parlamento perché adotti norme che rendano possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere che l’amministrazione deve esercitare. La Corte non esclude quindi “(…)  l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19 [ndr: comma 6-ter, della legge 7 agosto 1990, n. 241] quanto meno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una usa sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere (…)”

[1] TAR Emila Romagna – Parma Sez. I, sentenza parziale 22 gennaio 2019 n. 12. Si veda anche TAR Toscana, Sez. III, ordinanza 11 maggio 2017, n 667

 

Note conclusive.

Dalla disamina fin qui condotta si deve trarre la considerazione che ritardi ingiustificati dell’amministrazione, omissioni, o inerzia nella conduzione del procedimento, sono rimossi dal giudice amministrativo in una sorta di supplenza, con qualche analogia con l’esercizio dei poteri che il codice dei contratti pubblici affida al giudice medesimo con le norme trasfuse nel processo amministrativo con gli articoli da 120 a 125 sulla sorte dei contratti conseguenti ad aggiudicazioni risultate illegittime.

Nel campo delle sanzioni per abusi edilizi la giurisdizione amministrativa è dunque tanto ampia da essere efficace ed effettiva anche per la tutela degli interessi legittimi e non solo dei diritti[1].

[1] Non così in altre giurisdizioni, come quella del giudice tributario che, ancora vincolato alla separazione dei poteri e delle funzioni, separa quelli giurisdizionali da quelli amministrativi. Quel giudice è infatti portato a escludere che il privato possa chiedere al giudice di rimuovere un diniego frapposto dall’amministrazione all’accoglimento di un’istanza. Così la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con sentenza n. 4979/2018 (come riferito da Il Sole 24 Ore del 14 gennaio 2019 nella sezione Norme e Tributi) ha statuito che il diniego di esercizio del potere di autotutela non è sindacabile avanti al giudice, che pertanto non può provvedere secondo quanto prevede l’articolo 31, c. 3, c.p.a., sia perché non vi è analoga previsione nell’articolo 19 del D. Lgs. n. 546/1992 sul processo tributario, sia perché vi sarebbe una inammissibile sostituzione del giudice all’amministrazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Cons. St. Sez. IV, 11 giugno2015 n. 2861, secondo cui l’elemento della vicinitas è sufficiente a radicare la legittimazione ad impugnare il titolo edilizio quando la tutela invocata dal vicino diventa di per se stessa strumentale alla necessità di proteggere valori primari quali la sicurezza e l’ambiente.

[2] Cons. St. Sez. IV, 30 agosto 2018, n. 5115; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 3 ottobre 2018, n. 5771.

[3] TAR Campania, Napoli, Sez. III, n. 5771/cit.

[4] Cons. St., Sez. III, 21 giugno 2018, n 3858, e Sez., 8 maggio 2018, n. 2751.

[5] Ne dà conto il TAR dell’Umbria con la sentenza n. 16/2019 cit. richiamando sul primo dei due orientamenti. Fra le altre, Cons. St. Sez. VI, 10 settembre 2018 n. 5307 e TAR Emilia Romagna, Parma, 8 marzo 2017, n. 91 e, sul secondo, Cons. St. Sez. IV, 22 giugno 2018 e TAR Veneto, Sez. II, 21 marzo 2018 n. 324.

 

[6] TAR Lombardia, Brescia sez. II 18 marzo 2019 n. 236

[7] TAR Umbria, Sez. I, 10 gennaio 2019 n. 16. E’ anche il caso di un ricorso, non accolto, avverso silenzio-adempimento per non avere una pubblica amministrazione provveduto ad emanare un regolamento sulla protezioni da radiazioni emesse da apparecchiature di telefonia cellulare (TAR Lazio, Sez. III Quater, 15 gennaio 2019 n. 500).

 

[8] TAR Emila Romagna – Parma Sez. I, sentenza parziale 22 gennaio 2019 n. 12. Si veda anche TAR Toscana, Sez. III, ordinanza 11 maggio 2017, n 667

[9] Non così in altre giurisdizioni, come quella del giudice tributario che, ancora vincolato alla separazione dei poteri e delle funzioni, separa quelli giurisdizionali da quelli amministrativi. Quel giudice è infatti portato a escludere che il privato possa chiedere al giudice di rimuovere un diniego frapposto dall’amministrazione all’accoglimento di un’istanza. Così la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con sentenza n. 4979/2018 (come riferito da Il Sole 24 Ore del 14 gennaio 2019 nella sezione Norme e Tributi) ha statuito che il diniego di esercizio del potere di autotutela non è sindacabile avanti al giudice, che pertanto non può provvedere secondo quanto prevede l’articolo 31, c. 3, c.p.a., sia perché non vi è analoga previsione nell’articolo 19 del D. Lgs. n. 546/1992 sul processo tributario, sia perché vi sarebbe una inammissibile sostituzione del giudice all’amministrazione.

 

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