Il volto dell’altro nella mediazione penale con una vittima aspecifica

Home 9 Materie 9 Diritto Penale 9 Il volto dell’altro nella mediazione penale con una vittima aspecifica
Share

Avv. Mariano Macale

L’approccio a un tema come la giustizia riparativa e la mediazione penale è, ancor prima che giuridico o volendo precipuamente legislativo, un modello di pensiero culturale ad ampio spettro dove il convitato di pietra è raffigurato dall’insieme di concetti che da sempre si attribuiscono al senso di giustizia.
Quest’ultimo è spesso tradotto sostanzialmente prima nella ricerca della verità (attese tutte le evoluzioni che vogliono attribuirsi al sintagma in questione e che hanno a che vedere con i due modelli processuali penali per eccellenza, l’inquisitorio e l’accusatorio), poi nel sistema sanzionatorio esplicantesi in una funzione rieducativa della pena.
La giustizia riparativa è altresì un’ottica culturale che pretende non tanto di sostituire gli strumenti rieducativi del reo per il suo reinserimento nella società civile, bensì intende dare un contributo in più: è il tentativo di un confronto significativo e tangibile, irto di difficoltà e dall’esito non scontato, tra l’autore del reato e la vittima.
Difficile pertanto collocare un perno funzionale nella giustizia riparativa, a favore dell’uno (il reo) o dell’altro soggetto (la vittima), il che equivarrebbe a sbilanciare o quantomeno a falsare parzialmente il quadro, facendo perdere di vista la prospettiva finale, che sempre resta quella restituzione alla società civile, stavolta però passando per una responsabilizzazione.
La presa di coscienza delle conseguenze inferte a seguito dell’aver posto in essere il fatto di reato ritorna in parte su quel “sicuro ravvedimento”[1], che ricordiamo costituire requisito dell’ottenimento della liberazione condizionale ex art. 176 c.p.
D’altronde sarebbe quantomeno riduttivo ricondurre l’ampio dibattito tuttora in essere sulla giustizia riparativa a un concetto – quale l’indice del sicuro ravvedimento – pur più volte indicato dalla giurisprudenza di legittimità quale contatto effettivo con le vittime di reato, secondo varie modalità (un esempio su tutti è lo scambio epistolare), dal quale sia possibile desumere un atteggiamento significativo e riconoscibile inteso alla riconciliazione e al perdono, fatto proprio da chi – autore di reato – ha assunto piena consapevolezza delle azioni compiute[2].
Eppure, ripassare nel solco del concetto di sicuro ravvedimento è pur utile per comprendere come la giustizia riparativa muova i suoi passi da lontano nel panorama giurisprudenziale dell’ordinamento italiano, alimentando via via un dibattito sempre più intenso e complesso.
Pertanto sarà bene, ai fini di questa breve disamina in materia di mediazione penale con vittima aspecifica, partire dal presupposto pratico e operativo che è sempre l’incontro “faccia-a-faccia” che contribuisce a delineare quella presa di coscienza delle conseguenze dell’azione di reato e che dovrebbe poi condurre al sicuro ravvedimento anzidetto.
In questo incontro con la vittima, si riconosce (o si incontra qui davvero per la prima volta, fuori dal contesto della fattispecie criminosa) il volto dell’altro[3]. Quello che si instaura (e che si potrebbe dire essere il fine precipuo dell’incontro nei suoi aspetti riparativi) o che dovrebbe instaurarsi è un dialogo. I soggetti mutano via via dalle posizioni paradigmatiche nelle quali il fatto le ha incastonate (e le riporterà sempre in un’ottica di giustizia retributiva) per diventare progressivamente non soltanto “reo” e “vittima”, ma anche persone. Il piano della colpa declina in responsabilità.
Il concetto di responsabilità non è in questo senso riconducibile a quello enucleato dall’art. 27 della Carta Costituzionale. La responsabilità non è più soltanto “personale” rispetto al fatto commesso. Il quadro si estende, ricomprende la vittima e non più o solo come parte offesa dal reato, ma come persona, come altro soggetto carico di una propria storia, di un proprio vissuto, ora legato anche alla storia dell’autore di reato.
Si tratta dunque di una narrativa compartecipe nella quale i fatti nella loro descrizione materiale rappresentano solo un punto di partenza – forse per certi versi anche uno spunto, quasi un pretesto si direbbe – per arrivare a un traguardo che non sia la retribuzione in termini di pena nei confronti di un corpo sociale astratto, talvolta vago e indefinito, visto come un creditore che pretende, secondo diritto, il pagamento di un debito.
Il punto di arrivo è effettivamente una ripartenza: un riconoscimento della propria responsabilità e del volto dell’altro[4].
Da qui la necessità di comprendere in quale modo questa mediazione – questo incontro – possa sperimentarsi a fronte di una parte assente, o meglio in tutti questi casi in cui una persona offesa ben individuabile (una vittima specifica) sembra non esserci. Altresì ne deriverebbe il rischio di un insuccesso, un margine oggettivo e apparentemente non superabile alla possibilità di percepire e riconoscere le conseguenze delle proprie azioni, tanto da poter far pensare al reo di non aver arrecato pregiudizio ad alcuno (ciò ben al di là o ben prima di qualsivoglia ravvedimento).
È il caso di tutti quegli incontri di mediazione in cui, in fase preliminare all’incontro, l’utente riporta al mediatore di essere stato imputato per un reato stradale nel quale però non vi siano state vittime (talvolta ciò accade per quanto riguarda la fattispecie di guida sotto l’influenza dell’alcool, tipizzata dall’art. 186 del Codice della Strada: basterà pensare in tal senso ai controlli posti in essere dalla forza pubblica sulla strada ai fini di prevenire comportamenti illeciti o pericolosi alla guida di veicoli).

Nell’ambito di questa casistica, a fronte della non volontà della vittima di aderire all’incontro di mediazione o più frequentemente a fronte della riscontrata assenza di una vittima specifica, è possibile avviare un percorso di mediazione penale con vittima aspecifica o surrogata.

La vittima aspecifica o surrogata non dovrà però essere intesa quale semplice sostituto di una parte assente, funzionale soltanto a un effettivo conseguimento del percorso riparativo intrapreso dal reo. Se un percorso riparativo deve esserci, allora dovrà pur essere effettivo, tangibile, come il c.d. ravvedimento dovrà essere accompagnato (e qualificato) dall’aggettivo “sicuro”.
Tanto più che il ruolo della vittima è già marginalizzato nell’attuale impianto codicistico e legislativo, propri di logiche in parte retributive, in parte rieducative. Gli strumenti messi a disposizione dalla giustizia riparativa presuppone un ripensamento del ruolo degli operatori coinvolti dal procedimento penale (dai magistrati ai difensori, dagli operatori sociali ai mediatori). Il ruolo di ciascuno ripensato nell’ambito riparativo esulerebbe pertanto da un contributo alla fase esecutiva della pena limitato allo svolgimento di un incarico o all’esecuzione di un mandato professionale o ancora relativamente all’accertamento dei fatti. Bisogna cioè superare il tradizionale rapporto vittima-reo imperniato su prospettive punitive e/o risarcitorie per accedere a un salto culturale che accolga la vittima quale co-protagonista delle vicende processuali[5].
È d’uopo rilevare l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Venezia del 7 gennaio 2012, n. 5 (Pres. Pavarin).
In questa ordinanza del 2012 può ben rintracciarsi un favorevole avallo della giurisprudenza in materia di mediazione penale “aspecifica”. Anche in questo caso la valutazione dell’esito della mediazione penale interseca l’esigenza della delibazione dei presupposti di concessione della misura alternativa della semilibertà. Va detto infatti che alcuni aspetti della giustizia riparativa potrebbero essere rintracciati in nuce proprio nella disposizione dell’art. 50 co. 4 ord. penit.[6] in correlata lettura con l’art. 27, co. 1 del Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, in d.p.r. 230/2000. In quest’ultimo in particolare è riportato che “Sulla base dei dati giudiziari acquisiti, viene espletata, con il condannato o l’internato, una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa”. La riflessione su quelle possibili azioni riparative delle conseguenze del reato è il grimaldello che ha consentito, in maniera del tutto pionieristica, di avviare determinati percorsi di mediazione penale anche per gli autori di reati gravi o gravissimi, qual è nel caso di specie esaminato dall’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Venezia. Un’ordinanza peraltro che era destinata a suscitare un certo scalpore nell’opinione pubblica a riprova e dei fatti sui quali andava a pronunciarsi e del valore del pentimento del reo riconosciuto come autentico al termine del percorso di mediazione penale. Ciò supporta ulteriormente, lì dove ve ne fosse ancora bisogno, il dialogo per certi versi a tre proprio della mediazione penale, cioè uno scambio che coinvolge l’autore di reato, la vittima e indirettamente l’intera comunità. Qui emerge, per vari motivi eclatanti o se vogliamo più “rumorosi” il valore della mediazione penale con vittima aspecifica: tali sono i motivi perché l’efferatezza delle gesta “costituisce fatto a tal punto notorio da esimere addirittura il tribunale dal farvi qui più compiuto cenno”[7].
Lì dove una mediazione penale con vittima a-specifica dovesse essere effettuata per un autore di reato il quale abbia commesso un reato quale la guida in stato di ebbrezza, è bene attivare un confronto con un rappresentante dei familiari e vittime della strada. Ciò può avvenire tanto meglio se sono stati previsti specifici protocolli tra enti, altrimenti sarà comunque cura dei mediatori penali (alias dell’ente preposto alle mediazioni) individuare la rappresentanza più adeguata per ogni specifica situazione. Per fare un esempio concreto, per un reato di esercizio abusivo della professione medica, una scelta privilegiata per l’individuazione di una vittima a-specifica potrebbe consistere in chi da un reato analogo abbia subito pregiudizi (o in chi, come in genere i pazienti di un reparto ospedaliero) poteva subirne.
Per un più approfondito studio sulla materia in questione e sulla più ampia problematica della giustizia riparativa e della mediazione penale si rimanda alla recente pubblicazione della Key Editore “La Giustizia riparativa. Tra principi normativi, legge n°134 del 221 ed esperienza concreta.”, il secondo volume della Collana Percorsi di Giustizia Riparativa curata dall’Avv. Pasquale Lattari.

11 marzo 2022

[1] Sulla nozione di “sicuro ravvedimento” si riportano due pronunce della Suprema Corte. Per Cassazione penale sez. I del 24 aprile 2007, n. 18022, il ravvedimento deve consistere “nell’insieme degli atteggiamenti concretamente tenuti ed esteriorizzati dal soggetto durante il tempo di esecuzione della pena, che consentano il motivato apprezzamento della compiuta revisione critica delle scelte criminali di vita anteatta e la formulazione – in termini di “certezza”, ovvero di elevata e qualificata “probabilità” confinante con la certezza – di un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita del condannato al quadro di riferimento ordinamentale e sociale, con cui egli entrò in conflitto con la commissione dei reati per i quali ebbe a subire la sanzione penale”. Sullo stesso solco si pronunciava Cassazione penale sez. I del 4 febbraio 2009, n. 9001.

[2] In tal senso: Sez. 1, n. 18022 del 24/04/2007, Balzerani, Rv. 237365; Sez. 1, n. 9001 del 04/02/2009, Mambro, Rv. 24341, Sez. 1, n. 20005 del 09/04/2014, Bertotti, Rv. 259622.

[3] Lévinas e Peperzak, Etica come filosofia prima, Milano, 2001.

[4] L. Eusebi, Appunti minimi in tema di riforma del sistema sanzionatorio penale, in P. Pisa (a cura di), Verso una riforma del sistema sanzionatorio?, Giappichelli, Torino, 2008: “nulla più di un agente di reato il quale abbia saputo prendere le distanze, anche attraverso adeguati impegni riparativi, dalla sua pregressa esperienza criminosa può consolidare la credibilità delle norme violate, in quanto il suo percorso attesta con efficacia tutta particolare la capacità di persuasione del sistema giuridico circa la ragionevolezza delle sue prescrizioni.”

[5] Fabio Fiorentin, Punizione o riparazione? La giustizia riparativa nella fase esecutiva della pena: luci e ombre nella prospettiva della riforma “Cartabia”, in Diritto Penale e Uomo (DPU), fascicolo 10/2021.

[6] Art. 50, co. 4 ord. penit.: “L’ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società.”

[7] Ord. 7/01/2012, n. 5, Tribunale di Sorveglianza di Venezia.

Newsletter