FINE PENA MAI, PIÙ – LA GIURISPRUDENZA EUROUMANITARIA ED IL NUOVO DIRITTO ALLA SPERANZA*

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Dott.ssa Adriana Caforio

Il 15 aprile 2021 la Corte costituzionale si è espressa: l’ergastolo ostativo è incostituzionale.

Il Parlamento italiano ha così un anno di tempo per riformare l’attuale normativa penitenziaria riservata agli ergastolani non collaboranti, cercando delle soluzioni alternative in linea con la Costituzione.

I dubbi di costituzionalità che da tempo accompagnavano la pena perpetua hanno trovato conforto nelle ultime pronunce europee fino a destrutturare le presunzioni assolute anche a livello nazionale nel sistema antimafia.

Per la Corte di Strasburgo, infatti, l’illegittimità dell’ergastolo ostativo è contenuta nella concezione statica della detenzione e nell’immodificabilità della sentenza di fine pena mai.

In questo contesto si inserisce la sentenza sul caso Viola c. Italia, divenuta definitiva l’8 ottobre del 2019 e che, in ossequio al divieto di trattamenti inumani e degradanti ha condannato l’Italia per la c.d. “negazione del diritto alla speranza” per il detenuto.

Infatti, la sanzione detentiva non deve sopprimere totalmente la libertà del detenuto ma deve conservarne un residuo che «è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale». (Corte cost. sent. n. 349 del 1993)

Quest’ultimo è il nucleo centrale, rappresenta il diritto di incidere significativamente sul proprio percorso carcerario e sulla modalità di riabilitazione nella società.

In particolare, per la prima volta, la Corte EDU non contesta solo la pena ma anche la modalità di accesso ai benefici penitenziari, condizionati alla collaborazione con la giustizia.

La previsione dell’art. 4 bis commi 1 e 1 bis ord. pen., insieme all’art. 58 ter ord. pen. ossia la mancata concessione dei benefici penitenziari al condannato all’ergastolo non collaborante con la giustizia, per la Corte di Strasburgo lede irreversibilmente i diritti umani e la funzione rieducativa della pena.

L’ergastolo ostativo, dunque – per come applicato nell’ordinamento italiano – “limita eccessivamente la prospettiva di rilascio del condannato e di riesame della pena, rendendola incomprimibile e quindi contraria al senso di umanità ex art. 3 CEDU” (letteralmente dalla sentenza Viola c. Italia).

Di segno opposto, la lettura data dal giudice polacco Wojtyczec non firmatario della condanna all’Italia che, con prolisse motivazioni, ha espresso opinione contraria alle osservazioni degli altri giudici della Corte EDU.

In primo luogo, richiamando dei precedenti analoghi al caso Viola come la pronuncia Kafkaris c. Cipro del 2008 e Vinter c. Italia del 2012 ha affermato la piena compatibilità della pena perpetua con l’art. 3 CEDU.

In particolare, accogliendo l’orientamento della pronuncia Hutchinson c. Regno Unito ha sottolineato che, sebbene la rieducazione del condannato sia il minimo comun denominatore del procedimento penale, non può dirsi che la stessa sia l’unico fine a cui deve tendere la pena.

Difatti, la funzione rieducativa della pena vive e convive con quella retributiva e general – preventiva che richiama il carattere polifunzionale della pena ammettendo profili di legittimità dell’ergastolo per garantire la tutela dei diritti costituzionali dissacrati dalle mafie.

La denuncia di immodificabilità ed incomprimibilità della pena non trova accoglimento nella parte in cui il legislatore e la giurisprudenza nazionale hanno previsto modulazioni al trattamento penitenziario.

Tra l’altro, il concetto di autodeterminazione sollevato dal ricorrente in sede europea rispetto al diritto di scegliere le modalità con cui reinserirsi nella società non collima con il carattere dei delitti per i quali si procede.

I principi universali ribaditi dalla Corte EDU e confermati dalla successiva pronuncia della Corte costituzionale non risultano incompatibili con la pena a vita.

Perciò, l’ergastolo ostativo sembra ampiamente superare il giudizio di incostituzionalità o lesività euroumanitaria nella parte in cui prevede che lo stesso possa subire delle variazioni in termini di riducibilità.
Per le stesse ragioni il giudice non firmatario incalza dicendo che, nei casi di condotta contraria al trattamento penitenziario e rieducativo previsto dalla legge, ovvero di non comprovata recisione dal sodalizio criminale, l’ergastolo deve rimanere una pena perpetua ed ostativa alla concessione dei benefici.

Difatti in epoche di effettivo pericolo per la sopravvivenza democratica della società, come nel caso delle organizzazioni di stampo mafioso che minacciano e ledono a vario titolo i diritti costituzionalmente garantiti, l’irrigidimento su difese ad oltranza del garantismo può significare l’assoluta inutilità del controllo penale.

La previsione della comprimibilità della pena non può sconfinare nell’ovvio riconoscimento del beneficio penitenziario che, diversamente, necessita di esser conquistato dal ravvedimento del condannato per i delitti mafiosi commessi.

Difatti, il legislatore antimafia del ’90, ponendo delle condizioni più che ragionevoli ha previsto il meccanismo collaborativo che, trovando un compromesso con il detenuto, ottiene informazioni in cambio di benefici altrimenti non dovuti, con l’obiettivo di disgregare le associazioni mafiose.

Un contributo offerto alla Giustizia assolutamente coerente con la finalità rieducativa della pena, intesa come riabilitazione che coincida – almeno in parte – con i principi della Costituzione e non con quelli di lealtà mafiosa.

La legge, invero, non vuole scorgere l’intimo rammarico del detenuto ma l’oggettivo e palpabile distacco dai dettami mafiosi e dalle regole ferree delle cosche.

La ratio dell’equivalenza “collaborazione – beneficio” è fondata sull’assunto che dal giuramento mafioso ci si possa svincolare solo attraverso il contributo fornito alla Giustizia o, in alternativa, con la morte.

In questa situazione di grandi dubbi la Corte costituzionale, in data 23 ottobre 2019, era stata chiamata ad esprimersi su due questioni incidentali di grande importanza.

La prima, proposta dalla Corte di cassazione con ordinanza n. 4474 del 20 dicembre 2018, riguardante la mancata concessione dei benefici penitenziari ad un condannato all’ergastolo non collaborante con la giustizia e per delitti commessi avvalendosi del metodo mafioso.

La seconda, presentata dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia con ordinanza del 28 maggio del 2019 per le medesime motivazioni ma nel caso di un condannato all’ergastolo per vera e propria affiliazione ex art. 416 bis c.p.

Entrambe le questioni concernevano la violazione degli artt. 3 e 27 Cost. in relazione all’art. 58 ter ord. pen. in ordine alla preclusione dell’accesso ai benefici penitenziari derivanti da una mancata collaborazione con la giustizia.

Accogliendo i motivi di doglianza, con sentenza 253 del 2019 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis ord. pen nella parte in cui non prevede che – ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose – possano essere concessi i permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter ord. pen. allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità che i collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti”.

Con tale pronuncia, i benefici penitenziari, prima concessi ai soli collaboratori di giustizia, diventano accessibili a tutti coloro che dimostrino concretamente l’effettiva recisione dai dettami criminali mafiosi attraverso un vero e proprio onere di allegazione.

Del medesimo tenore l’ordinanza n. 97 del 2021 in cui la Corte costituzionale esclude l’applicazione dell’ergastolo ostativo perché contrario ai principi fondamentali e rimanda al Parlamento le nuove determinazioni sul meccanismo premiale.

La nuove pronunce della Corte sembrano segnare un repentino cambio di rotta rispetto alle precedenti. Nella sentenza n. 135 del 2003 la Corte, difatti, aveva escluso l’incostituzionalità dell’art. 4 bis co.1 ord. pen. e dell’ergastolo ostativo nella misura in cui tale provvedimento era frutto di una scelta consapevole del detenuto, sempre ritrattabile.

Appare evidente che il dialogo multilivello tra Corti nazionali e sovranazionali abbia ridisegnato i margini della legittimità dell’ergastolo ostativo attraverso un bilanciamento d’interessi che trova il suo equilibrio nel crescente riconoscimento dei diritti umani e nella soppressione di ogni assoluta ed irragionevole presunzione.

Non v’è dubbio, in definitiva, che il diritto penale d’emergenza e le sue implicazioni sul trattamento penitenziario siano basati sul sottile equilibrio che sorregge la pena e si inseriscono in un complesso di valori e funzioni, tutti ugualmente importanti che tendono essenzialmente ad impedire che l’afflittività superi il punto oltre il quale si pone in contrasto con il senso di umanità. (sent. Corte cost. n. 12 del 1966).

La sanzione a vita dovrà, da oggi in poi, cedere il posto ad un nuovo diritto di matrice euroumanitaria: La Speranza.

Dunque, “Fine pena mai, più!”.

* [Per approfondimenti si rinvia al volume di Diritto penale – Fine pena mai, più. Le declinazioni del fenomeno mafioso al tempo del diritto alla speranza – di Adriana Caforio 2021 Key Editore]

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