Cass. Civ., sez. I, ord.,19 luglio 2018, n. 19296

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Cass. Civ., sez. I, ord.,19 luglio 2018, n. 19296

[Omissis].

FATTI DI CAUSA

  1. 1. L’OMBA – Impianti & Engineering S.p.a., in proprio e nella qualità di mandataria del Raggruppamento Temporaneo d’Imprese costituito con la CO.GE.ME. S.r.l., subappaltatore dei lavori di realizzazione delle strutture portanti degli impalcati metallici dei viadotti […] della autostrada […] nel tratto […], convenne in giudizio la 2006 Soc. Consortile a r.l., appaltatrice dei predetti lavori nell’ambito degli interventi previsti per i Giochi Olimpici invernali di […], nonchè i soci della stessa, SITALFA S.p.a., MATTIODA Pierino & Figli S.p.a., Edilizia & Costruzioni S.r.l. e ITINERA S.p.a., per sentirli condannare al pagamento della somma di Euro483,74 otre IVA, a titolo di revisione dei prezzi o d’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento.
  2. 2. Premesso di aver provveduto anche all’approvvigionamento dell’acciaio necessario per la realizzazione delle opere, come previsto dal contratto stipulato il 4 giugno 2004, affermò di aver diritto, in deroga al divieto della revisione dei prezzi previsto dalla L. 11 febbraio 1994, n. 109, art. 26, alle compensazioni previste dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 550, a seguito dell’incremento dei prezzi dei materiali ferrosi da costruzione verificatosi a partire dal 2004, nella misura indicata dai decreti del Ministero delle Infrastrutture 30 giugno 2005 e 14 ottobre 2006.
  3. 3. Si costituirono le convenute e resistettero alla domanda, sostenendo che la L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 550, non era applicabile al contratto di subappalto, ed aggiungendo che l’attrice aveva rinunciato alla richiesta di maggiori compensi ai sensi degli artt. 1660 e 1664 c.c.; affermarono che i maggiori oneri sopportati dall’attrice erano alla stessa imputabili, a causa del mancato rispetto del cronoprogramma degli approvvigionamenti, osservando infine che essa non aveva fornito la prova della variazione dei prezzi.

3.1. Con sentenza dell’8 aprile 2010, il Tribunale di Tortona rigettò la domanda.

  1. 4. L’impugnazione proposta dall’OMBA è stata rigettata dalla Corte d’appello di Torino con sentenza del 31 maggio 2012.

Premesso che la L. n. 109 del 1994, art. 26, comma 4-bis, introdotto dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 550, prevede una deroga al principio generale del c.d. prezzo chiuso, volta a far fronte all’impatto dell’aumento del costo dei materiali sul corrispettivo degli appalti pubblici, la Corte ne ha escluso l’applicabilità al rapporto di subappalto, intercorrente esclusivamente tra parti private, affermandone l’operatività soltanto nei confronti della Pubblica Amministrazione. Ha ritenuto altresì inconferente il richiamo all’art. 1339 c.c., osservando che l’inserzione automatica di clausole avrebbe dovuto operare nell’ambito non già del rapporto di appalto pubblico, ma di un diverso rapporto, al quale l’Amministrazione era estranea, ed in riferimento al quale l’autonomia negoziale delle parti avrebbe escluso la necessità di un intervento diretto del legislatore.

Pur rilevando che il contratto stipulato tra le parti richiamava espressamente la normativa sull’appalto pubblico, la Corte ha escluso che tale rinvio comportasse il recepimento della disciplina pubblicistica fino al punto da sovvertire la diversa volontà negoziale, osservando che esso risultava formulato soltanto in funzione obbligatoria della parte subappaltatrice, non già della subcommittente, e trovava spiegazione nella funzionalità dell’opera subappaltata alla realizzazione dell’appalto pubblico, in particolare nell’esigenza di far constare nei confronti della subappaltatrice gli obblighi cui l’appaltatrice era chiamata in forza dell’appalto pubblico, risultando peraltro evidente che le parti avevano inteso apprestare una disciplina “dedicata”, particolarmente in tema di determinazione del corrispettivo e di esclusione della revisione dei prezzi, incompatibile con l’adozione della normativa sullo appalto pubblico. Ha rilevato infatti che il subappaltatore aveva dichiarato di ben conoscere i lavori affidati ed i luoghi, modi e condizioni di esecuzione, nonchè tutti i rischi e gli oneri connessi potenzialmente incidenti sul corrispettivo, rinunciando ad eccepire l’ignoranza di fatti o la sopravvenienza di elementi non valutati; l’offerta economica era stata formulata a forfait ed il corrispettivo, espressamente ritenuto remunerativo, era destinato a compensare tutte le prestazioni previste, con esclusione del diritto del subappaltatore a pretendere compensi o indennità, e con la rinuncia ad avanzare richieste ai sensi degli artt. 1660 e 1664 c.c., ed a valersi dell’art. 1467 c.c..

Precisato che, se le parti avessero inteso applicare tout court la disciplina relativa all’appalto pubblico, le predette precisazioni sarebbero state inutili ed eccedenti lo scopo già fatto proprio dal legislatore, la Corte ha osservato comunque che il fenomeno del “caro acciaio” si era manifestato sui mercati internazionali fin dai primi mesi del 2004, sì da poter essere già noto all’attrice al momento della stipulazione del contratto. Ha aggiunto che quest’ultimo era stato concluso quando la subappaltatrice doveva essersi già approvvigionata di buona parte dei materiali, escludendo pertanto che l’incremento del costo dell’acciaio si fosse profilato come un evento assolutamente nuovo, imprevisto ed imprevedibile. Ha ritenuto valida la rinuncia dell’OMBA alla revisione dei prezzi, affermando che essa si riferiva ad un diritto ben delineato ed insito proprio nel conseguimento della revisione dei prezzi in presenza di un eventuale incremento dei costi di approvvigionamento, e doveva comunque considerarsi efficace indipendentemente dal livello di prevedibilità dell’incremento dei costi di produzione.

Ritenuta infine ammissibile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., la produzione in giudizio dell’attestato di versamento della SITAF alla 2006 del conguaglio relativo ai maggiori oneri economici derivanti dal “caro acciaio”, in quanto conseguito dall’attrice soltanto nel corso del giudizio ed a seguito di un ricorso al Giudice amministrativo, la Corte ne ha escluso la decisività ai fini del riconoscimento della violazione della buona fede contrattuale, osservando che quest’ultima incontra un limite nell’inesigibilità da parte del contraente di un comportamento contra se.

Ha ritenuto infine infondata la domanda subordinata d’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento, affermando che la stessa non è proponibile quando la parte disponga della possibilità giuridica di far valere in giudizio il proprio diritto con un’azione tipica contrattuale. Ha rilevato che nella specie il rapporto contrattuale risultava pacificamente esistente e valido, mentre i relativi rimedi erano stati ritenuti infondati nel merito, aggiungendo comunque che la mancata corresponsione della somma richiesta dall’attrice dipendeva da una disciplina negoziale che la giustificava e la legittimava, e che l’arricchimento della 2006 trovava rispondenza in una diminuzione patrimoniale subita non già dall’OMBA, che aveva ricevuto esattamente quanto pattuito, ma dalla SITAF.

  1. 5. Avverso la predetta sentenza l’OMBA ha proposto ricorso per cassazione, articolato in nove motivi, illustrati anche con memoria. La 2006 ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria. La SITALFA, la MATTIODA, l’Edilizia & Costruzioni e l’ITINERA non hanno svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. 1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. n. 109 del 1994, art. 26, comma 4-bis, introdotto dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 550, e dell’art. 1372 c.c., sostenendo che, nell’escludere l’applicabilità della prima disposizione al contratto di subappalto, la sentenza impugnata non ha considerato che la stessa prevede una forma di revisione del c.d. prezzo chiuso, quale strumento di tutela dell’originario equilibrio tra le prestazioni contrattuali. Nel negarne il carattere cogente, la Corte di merito ha omesso di rilevare che essa costituisce una norma di ordine pubblico, inderogabile dalla volontà delle parti, con la conseguenza che la compensazione non rappresenta una mera facoltà della Pubblica Amministrazione, ma un vero e proprio obbligo contrattuale della stessa, cui corrisponde un diritto soggettivo dell’appaltatore. Un’interpretazione costituzionalmente orientata avrebbe d’altronde imposto di riconoscere la strumentalità della norma alla corretta esecuzione dell’opera pubblica, essendo stata la stessa introdotta per far fronte ad un eccezionale incremento dei costi del ferro e dell’acciaio, in presenza del quale il mancato adeguamento dei prezzi degli appalti pubblici avrebbe indotto gli appaltatori a ridurre la qualità dei materiali utilizzati nella realizzazione delle opere pubbliche. Pur riconoscendo che l’unico soggetto legittimato a chiedere le compensazioni è l’appaltatore, la sentenza impugnata non ha peraltro considerato che, ove le stesse siano giustificate da maggiori oneri sopportati da fornitori o subappaltatori, l’appaltatore è obbligato a tutelarne gl’interessi, in ossequio al dovere di comportarsi secondo buona fede, non potendo incamerare importi sine titulo. Nell’affermare che il rinvio del contratto alla disciplina pubblicistica riguardava esclusivamente la subappaltatrice, la Corte di merito ha omesso di rilevare che l’integrazione del contratto mediante il rinvio a norme di legge produce effetti nei confronti di tutte le parti contraenti, soprattutto nel caso in cui, come nella specie, le predette norme siano successivamente derogate attraverso una norma di ordine pubblico volta a riequilibrare il rapporto sinallagmatico alterato da un eccezionale ed imprevedibile aumento dei prezzi.
  2. 2. La predetta censura va esaminata congiuntamente a quella proposta con l’ottavo motivo, con cui la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 c.c., comma 2, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, nell’escludere l’applicabilità del divieto di revisione dei prezzi nell’ambito del rapporto di subappalto, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dell’inevitabile incidenza del principio del c.d. prezzo chiuso operante nell’ambito del rapporto di appalto.
  3. 3. I due motivi sono infondati.

Nell’ambito del ragionamento seguito dalla sentenza impugnata, l’affermazione dell’inapplicabilità della L. n. 109 del 1994, art. 26, comma 4-bis, alla fattispecie in esame non trova infatti giustificazione nell’esclusione dell’inderogabilità di tale disposizione o del carattere pubblico degl’interessi dalla stessa tutelati, ma nella distinzione tra il rapporto di appalto pubblico, cui essa si riferisce in via esclusiva, e quello di subappalto, intercorrente tra parti private, e nel conseguente riconoscimento della posizione di terzo che il subappaltatore riveste rispetto al rapporto tra l’Amministrazione committente e l’appaltatore. Tale rilievo trova conforto nel consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, espressamente richiamato dalla Corte distrettuale, secondo cui il contratto di subappalto stipulato dallo appaltatore di un’opera pubblica costituisce un contratto strutturalmente distinto da quello principale, che, in quanto concluso tra soggetti entrambi privati, rimane sottoposto alla normativa del codice civile ed al contenuto negoziale che le parti hanno inteso conferirgli, con la conseguenza che ad esso non sono applicabili, se non attraverso eventuali richiami pattizi, le disposizioni d’impronta marcatamente pubblicistica tipiche dell’appalto di opere pubbliche (cfr. Cass., Sez. 1^, 20 giugno 2000, n. 8384). Il carattere derivato del subappalto non implica infatti che in esso si trasfondano automaticamente i patti e le condizioni dell’appalto, trattandosi di contratti che conservano la rispettiva autonomia, con la conseguenza che le parti del primo possono ben regolare il rapporto in modo difforme dal secondo, stabilendo condizioni, modalità e clausole diverse da quelle che nel contratto principale trovano applicazione in attuazione della normativa in tema di appalti pubblici (cfr. Cass., Sez. 1^, 24 luglio 2000, n. 9684; v. anche Cass., Sez. 29 maggio 1999, n. 5237).

Raccogliendo quest’impostazione invece accogliendo la nostra impostazione 3.1. L’insistenza della ricorrente sulla riferibilità dell’art. 26, comma 4-bis cit. anche al rapporto con il subappaltatore contrasta peraltro con la considerazione che, in quanto volte a ripristinare l’originario equilibrio tra la prestazione dell’appaltatore e la controprestazione dell’amministrazione, alterato da anomale variazioni dei prezzi dei materiali (cfr. Cass., Sez. Un., 26 settembre 2011, n. 19567), le compensazioni previste dalla norma in esame rispondono sostanzialmente alla stessa finalità della revisione dei prezzi, la cui disciplina pubblicistica, anch’essa volta a ristabilire il rapporto sinallagmatico tra le prestazioni contrattuali, mediante l’adeguamento del corrispettivo alle variazioni dei prezzi di mercato che superino la soglia prevista dalla alea contrattuale, è stata costantemente ritenuta inapplicabile al rapporto di subappalto, in assenza di uno specifico richiamo, e ciò proprio in virtù della autonomia di tale rapporto, che, anche se ha per oggetto la realizzazione di opere pubbliche, resta distinto da quello tra l’appaltatore e l’Amministrazione committente (cfr. Cass., Sez. 1^, 11 maggio 2006, n. 10885; 27 dicembre 1993, n. 12808). Nella specie, d’altronde, la possibilità del riconoscimento della revisione dei prezzi doveva considerarsi esclusa anche nell’ambito del rapporto di appalto, il quale, come ha ammesso la stessa ricorrente, era regolato dal sistema del c.d. prezzo chiuso, incompatibile con l’applicazione della relativa disciplina (cfr. Cass., Sez. 1^, 18 maggio 2012, n. 7917; 14 novembre 2003, n. 17199; 6 maggio 1998, n. 4547). È 1 vero che l’esclusione della revisione dei prezzi non impedisce il riconoscimento delle compensazioni previste dalla L. n. 109 del 1994, art. 26, comma 4-bis, avente come presupposto il sopravvenire di circostanze espressamente definite “eccezionali” ed ammesso anche in deroga al divieto della revisione dei prezzi previsto in via generale dal medesimo art. 26, comma 3: tale divieto non trova tuttavia applicazione nell’ambito del rapporto di subappalto, il cui regolamento, come si è detto, può essere liberamente concordato dalle parti, non vincolate, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, all’osservanza delle norme pubblicistiche riguardanti il rapporto principale, e quindi libere di disciplinare a loro discrezione gli effetti di eventuali sopravvenienze.

3.2. Correttamente, pertanto, ai fini dell’esclusione del diritto alle compensazioni, la sentenza impugnata ha fatto riferimento alle clausole del contratto stipulato tra le parti, osservando che il rinvio dalle stesse formulato alla disciplina dell’appalto pubblico era volto esclusivamente a far constare formalmente gli obblighi posti a carico dell’appaltatrice per la realizzazione dell’opera pubblica, in modo da poter esigere contrattualmente un comportamento cooperativo e collaborativo da parte della subappaltatrice, ma non comportava il recepimento dell’intera normativa in tema di appalto pubblico, e segnatamente delle disposizioni riguardanti la determinazione del corrispettivo e la revisione dei prezzi, delle quali ha rilevato l’incompatibilità con la disciplina specifica concordata tra le parti.

Peraltro, anche a voler ritenere che il predetto rinvio comportasse l’assoggettamento del rapporto di subappalto all’intera disciplina pubblicistica del rapporto principale, dovrebbe ugualmente escludersi la possibilità di estendere allo stesso l’efficacia di modificazioni normative sopravvenute alla stipulazione del contratto, come quelle introdotte dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 550, non essendo stato neppure dedotto che, attraverso tale rinvio, le parti avessero inteso fare riferimento alla stessa fonte legale del regolamento contrattuale, anziché alla normativa vigente all’epoca della conclusione del contratto, e dovendosi dunque ritenere che, una volta formatasi la volontà contrattuale sulla base della predetta normativa, l’intero rapporto dovesse svolgersi secondo la disciplina dalla stessa dettata, e le modificazioni sopravvenute non potessero alterarne il regime pattizio (cfr. Cass., Sez. 1^, 6/08/2015, n. 16544; 22 febbraio 2007, n. 4176; 7 luglio 2004, n. 12416).

3.3. Alla stregua di tale regime, così come ricostruito dalla sentenza impugnata, non meritano infine censura le conclusioni cui è pervenuta la Corte distrettuale, la quale, rilevato che la subappaltatrice aveva accettato il corrispettivo forfettariamente indicato, dichiarando di essere a conoscenza di tutti i rischi incidenti sulla sua determinazione, ed aveva esplicitamente rinunciato a pretendere maggiori compensi a norma degli artt. 1660 e 1664, nonchè a valersi del rimedio previsto dall’art. 1467 c.c., ed alla revisione prezzi, ha escluso che l’appaltatrice fosse tenuta a trasferirle l’importo corrispostole a titolo di compensazioni dalla committente, ritenendo ininfluente, a tal fine, anche il richiamo della ricorrente al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. Come più volte ribadito da questa Corte, infatti, l’impegno solidaristico di carattere generale connesso all’osservanza di detto principio, pur traducendosi nell’imposizione a carico di ciascuna delle parti dell’obbligo di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, indipendentemente da specifici obblighi contrattuali o dal dovere extracontrattuale di neminem ledere, incontra il suo limite nell’interesse proprio del soggetto, il quale è tenuto al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte esclusivamente nella misura in cui gli stessi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (cfr. Cass., Sez. 3^, 4 maggio 2009, n. 10182; 11 gennaio 2006, n. 264; 30 luglio 2008, n. 14605).

  1. 4. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 1346 c.c., osservando che, nel ritenere giustificata l’alterazione del sinallagma contrattuale, in virtù della rinuncia di essa ricorrente ad avvalersi degli artt. 1660, 1664 e 1467 c.c., la Corte di merito non ha considerato che la rinuncia a diritti futuri ed eventuali è ammissibile soltanto alla condizione che gli stessi risultino determinati o determinabili nella loro estensione. Tale requisito nella specie non sussisteva, dal momento che all’epoca della stipulazione del contratto non era prevedibile che il legislatore intervenisse, in materia di appalti pubblici, per introdurre un diritto alle compensazioni, in deroga alla disciplina del c.d. prezzo chiuso. La rinuncia alla revisione dei prezzi non comportava pertanto il venir meno della facoltà di avvalersi delle compensazioni, il cui riconoscimento, avente come titolo la sopportazione di maggiori costi da parte della subappaltatrice, doveva considerarsi sostanzialmente indifferente per l’appaltatrice, essendo il relativo onere destinato ad essere riversato sulla committente.

4.1. Il motivo è infondato.

La disciplina della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, dettata in via generale dall’art. 1467 c.c., e quella della revisione dei prezzi, prevista in tema di appalto dall’art. 1664 c.c., che ne rappresenta una specificazione, costituiscono infatti espressione del principio secondo cui nei contratti a prestazioni corrispettive, ad esecuzione continuata o periodica o differita, ciascuna parte assume su di sè il rischio degli eventi che comportino un’alterazione del valore economico delle rispettive prestazioni, entro i limiti rientranti nell’alea normale del contratto; tale principio non ha carattere inderogabile, ben potendo le parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, conferire al contratto natura aleatoria, attraverso la rinuncia convenzionale, anche in via preventiva, ai rimedi previsti dalle norme in esame, mediante una clausola che evidenzi la loro volontà di assumere i rischi inerenti ai predetti eventi, ancorché imprevedibili (cfr. Cass., Sez. 2A, 21 gennaio 2011, n. 1494; Cass., Sez. 1A, 26 novembre 1984, n. 6106; 25 novembre 1977, n. 5137).

Nella specie, d’altronde, l’imprevedibilità dell’aumento dei prezzi dell’acciaio che determinò l’introduzione dell’istituto delle compensazioni è stata esclusa dalla sentenza impugnata, rimasta incensurata sul punto, in virtù della duplice considerazione che al momento della conclusione del contratto tale fenomeno si era già manifestato, e la subappaltatrice si era già approvvigionata dei materiali necessari per la realizzazione delle opere. Correttamente, pertanto, la Corte distrettuale ha ritenuto valida la clausola contrattuale con cui l’attrice aveva rinunciato ad avanzare richieste di maggiori compensi e ad avvalersi dei rimedi previsti dagli artt. 1660, 1664 e 1467 c.c., concludendo che la stessa comportava l’esclusione anche del diritto alla compensazione, benché quest’ultimo non fosse ancora sorto al momento della stipulazione.

  1. 5. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362 e 1372 c.c., affermando che, nell’interpretazione del contratto di subappalto, la sentenza impugnata non ha tenuto conto del carattere prioritario dell’interpretazione letterale, la cui utilizzazione preclude il ricorso agli altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate. Nel ritenere che la portata obbligatoria del richiamo della disciplina pubblicistica fosse limitata alla subappaltatrice, la Corte di merito ha sovrapposto la propria interpretazione al tenore letterale del contratto, dal quale non emergeva alcun elemento idoneo a far ritenere che le parti avessero inteso escludere l’applicabilità della normativa in tema di appalti pubblici.

5.1. Il motivo è infondato.

Nella ricostruzione della comune intenzione dei contraenti, la sentenza impugnata ha conferito esclusivo rilievo proprio al significato letterale delle espressioni usate, riportando testualmente il contenuto delle clausole con cui la subappaltatrice aveva dichiarato di conoscere i rischi incidenti sulla determinazione del corrispettivo ed aveva rinunciato ad eccepire l’ignoranza dei fatti e la sopravvenienza di elementi non valutati e non considerati, accettando il compenso determinato a forfait e riconoscendone l’omnicomprensività, la remuneratività e l’invariabilità, con la rinuncia a pretendere compensi e/o indennità di qualsiasi genere, nonché ad avvalersi degli artt. 1660,1664 e 1467 c.c.. È sulla base di tali elementi, ritenuti univoci e convergenti, che essa ha attribuito al richiamo della disciplina dell’appalto pubblico una portata limitata all’individuazione degli obblighi di collaborazione e cooperazione posti a carico della subappaltatrice, con la conseguente esclusione dell’applicabilità delle norme pubblicistiche riguardanti la determinazione del prezzo.

Non può dunque ritenersi violato il principio, costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, che attribuisce carattere prioritario al criterio interpretativo fondato sul tenore letterale del testo contrattuale e una portata meramente sussidiaria agli altri criteri, escludendo la necessità del ricorso a questi ultimi nel caso in cui la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti (cfr. Cass., Sez. 3A, 11 marzo 2014, n. 5595; 9 giugno 2004, n. 10968; 27 luglio 2001, n. 10290). Nel contestare la predetta interpretazione, la ricorrente si limita d’altronde ad insistere sul valore sintomatico del richiamo alla normativa pubblicistica, del quale la sentenza impugnata ha comunque tenuto conto, senza ritenerlo decisivo, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione della violazione dei canoni ermeneutici, una nuova valutazione degli atti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare l’intera vicenda processuale, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, cui è riservata in via esclusiva l’interpretazione dei contratti (cfr. Cass., Sez. 3A, 14 luglio 2016, n. 14355; 26 maggio 2016, n. 10891; 10 febbraio 2015, n. 2465).

  1. 6. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1366 e 1374 c.c., sostenendo che, nell’escludere l’applicabilità della normativa in tema di appalti pubblici, la sentenza impugnata ha violato il criterio che impone d’interpretare il contratto secondo buona fede, da intendersi come bilanciamento tra diritti ugualmente tutelati a livello costituzionale, in modo da individuare un giusto equilibrio tra gli stessi e da impedire che il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, che devono improntare il rapporto tra il committente e l’appaltatore, restino pregiudicati nell’ambito del rapporto di subappalto, a danno di coloro che, avendo prestato la propria attività per la realizzazione dell’opera pubblica, hanno a tal fine sopportato oneri eccezionali. La Corte di merito ha inoltre omesso di applicare il principio di equità integrativa, secondo cui gli effetti del contratto devono essere determinati secondo criteri di logica giuridica tali da consentire l’adattamento della norma al caso concreto.
  2. 7. Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1175, 1374 e 1375 c.c., affermando che, nell’escludere che la buona fede consentisse di superare il tenore letterale del contratto, la sentenza impugnata non ha considerato che essa costituisce espressione del dovere inderogabile di solidarietà, ormai costituzionalizzato ed idoneo ad orientare l’interpretazione e l’esecuzione dei contratti, nonché a determinarne integrativamente il contenuto e gli effetti, nel rispetto del principio secondo cui ciascun contraente è tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprezzabile sacrificio del proprio interesse. La Corte di merito ha infatti omesso di rilevare che ciò che si richiedeva non era un comportamento contra se dell’appaltatrice, non avendo essa sopportato i maggiori oneri per l’acquisto dell’acciaio, ma un intervento integrativo sul contenuto del contratto, volto a prevenire o reprimere l’abuso del diritto consistente nell’incameramento senza titolo delle relative compensazioni. La sentenza impugnata non ha tenuto conto della contrarietà alla buona fede del comportamento tenuto dalla 2006, la quale, dopo aver ottenuto le compensazioni senza aver fatto fronte ai relativi oneri, ha rifiutato di riversarle al soggetto che li aveva effettivamente sopportati, opponendo il mancato rispetto del cronoprogramma degli approvvigionamenti, senza considerare che le compensazioni erano dovute indipendentemente dal periodo dell’anno in cui le lavorazioni erano state effettuate.
  3. 8. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione, sono infondati.

Premesso che, in quanto riflettenti la violazione di un criterio ermeneutico integrativo, avente carattere sussidiario, le censure in esame si pongono in evidente contraddizione con l’affermazione del valore prioritario della interpretazione letterale, posta a fondamento del terzo motivo d’impugnazione, si osserva che nella specie l’utilizzazione di tale criterio doveva considerarsi preclusa dalla rilevata chiarezza ed univocità del tenore letterale delle clausole contrattuali, reputate idonee ad evidenziare la volontà delle parti di escludere l’applicabilità della disciplina in materia di appalti pubblici, e con essa il diritto della subappaltatrice alle compensazioni. In quanto volta ad ottenere il riconoscimento di tale diritto a prescindere o addirittura in contrasto con tale lettura, l’operazione ermeneutica suggerita dalla ricorrente si traduce pertanto in una correzione o una modifica del dato testuale, avente come risultato l’inserimento nel contratto di un contenuto non previsto e neppure immaginabile dalle parti al momento della stipulazione, nonché incompatibile con l’intento, desumibile dall’esclusione del diritto alla revisione, di porre a carico della subappaltatrice il rischio di eventi idonei a determinare un’alterazione del valore economico della sua prestazione, anche oltre i limiti della normale alea contrattuale. Tale risultato si pone in contrasto con il principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema d’interpretazione dei contratti, secondo cui la volontà emergente dal consenso prestato dalle parti nel momento della stipulazione non può essere integrata con elementi ad essa estranei, e ciò anche quando, come nella specie, sia invocata la buona fede come criterio di interpretazione del contratto, dal momento che la stessa deve intendersi come fattore d’integrazione del contratto non già sul piano dell’interpretazione dello stesso, ma su quello, diverso, della determinazione del contenuto delle rispettive obbligazioni, come stabilito dall’art. 1375 c.c.: nel sistema giuridico attuale, l’attività interpretativa è infatti legalmente guidata, nel senso che essa risulta conforme a diritto non già quando ricostruisce con precisione la volontà delle parti, ma quando si adegui alle regole legali, le quali, in generale, non sono norme integrative, dispositive o suppletive del contenuto del contratto, ma costituiscono esclusivamente lo strumento mediante il quale procedere alla ricostruzione della comune intenzione delle parti al momento della stipulazione del contratto, e perciò della sostanza dell’accordo (cfr. Cass., Sez. 1^, 31 maggio 2016, n. 11263; Cass., Sez. 2^, 30 agosto 2011, n. 17809; Cass., Sez. 3^, 12 aprile 2006, n. 8619).

Nessun rilievo può assumere, in proposito, la circostanza che, per effetto delle differenze esistenti tra la disciplina dell’appalto pubblico e quella dell’appalto privato, la subappaltatrice non possa, nella specie, trarre profitto in tutto o in parte dal maggior compenso conseguito dall’appaltatrice in applicazione della norma sopravvenuta, trattandosi di uno squilibrio estrinseco al contratto di subappalto, e tale da non giustificare operazioni ermeneutiche integrativo-correttive, in quanto non riconducibile ad un comportamento abusivo dell’appaltatrice, la quale, nel percepire il predetto compenso, ha esercitato un diritto riconosciutole dalla legge: per la configurabilità di un abuso del diritto non è infatti sufficiente che una parte del contratto, pur perseguendo un risultato lecito con mezzi legittimi, abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi della altra, ma è necessario che il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo abbia esercitato con modalità sproporzionate ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando alla controparte un sacrificio eccessivo ed ingiustificato, al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà le erano attribuiti (cfr. Cass., Sez. lav., 7 maggio 2013, n. 10568; Cass., Sez, 3^, 29 maggio 2012, n. 8567; 18 settembre 2009, n. 20106).

  1. 9. Con il sesto motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione della L. 19 marzo 1990, n. 55, art. 18, comma 4, e degli artt. 1339 e 1419 c.c., sostenendo che l’applicabilità della L. n. 109 del 1994, art. 26, comma 4-bis, al contratto di appalto determinava la nullità delle clausole del contratto di subappalto che ne escludevano l’operatività, per frode alla legge, comportando le stesse il venir meno della comparabilità tra il corrispettivo dell’appalto e quello del subappalto.

9.1. Il motivo è infondato.

La L. n. 55 del 1990, art. 18, comma 4, il quale impone all’impresa aggiudicataria di praticare, per le opere affidate in subappalto, gli stessi prezzi unitari risultanti dall’aggiudicazione, con ribasso non superiore al venti per cento, non reca infatti alcun riferimento ad eventuali ulteriori corrispettivi riconosciuti all’appaltatore in aggiunta a quello risultante dalla gara espletata per l’affidamento dell’opera, e non implica pertanto che il corrispettivo dovuto al subappaltatore debba essere successivamente adeguato ai maggiori importi conseguiti dall’appaltatore a titolo di revisione prezzi o, come nella specie, di compensazioni. In quanto riconducibile al diverso regime giuridico cui sono sottoposti i due contratti, l’esclusione dello obbligo di riversare in tutto o in parte i predetti importi al subappaltatore non si pone d’altronde in contrasto con la finalità di ordine pubblico perseguita dalla predetta disposizione, consistente nell’impedire un eccessivo frazionamento dell’operazione economica, con finalità di sfruttamento del lavoro (cfr. Cass., Sez. 1^, 12 febbraio 2016 12 febbraio 2016, n. 2814; Cass., Sez. 2^, 1º aprile 2015, n. 6635; 23 aprile 2005, n. 8565), e non dà quindi luogo ad un’ipotesi di frode alla legge, la cui peculiarità consiste nel fatto che gli stipulanti raggiungono, attraverso gli accordi contrattuali, un risultato vietato dalla legge, con la conseguenza che, nonostante la liceità del mezzo impiegato, è illecito il risultato che si vuole in concreto realizzare attraverso l’abuso dello stesso e la distorsione della sua funzione ordinaria (cfr. Cass., Sez. 3^, 26 gennaio 2010, n. 1523).

  1. 10. Con il settimo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2041 e 2042 c.c., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto preclusa l’azione d’ingiustificato arricchimento, per effetto della rinuncia alla revisione dei prezzi, senza considerare che l’affermata inapplicabilità della disciplina pubblicistica dell’appalto, a causa dell’autonomia del rapporto di subappalto, escludeva la possibilità di porre tale rapporto a fondamento della domanda di riconoscimento delle compensazioni. La Corte di merito non ha tenuto conto della diversità dei fatti costitutivi delle azioni d’inadempimento e ed arricchimento, né della documentazione prodotta, da cui emergevano l’avvenuto riconoscimento delle compensazioni in favore della 2006 e la sopportazione dei relativi oneri da parte di essa ricorrente.
  2. 11. Con il nono motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione della L. n. 109 del 1994, art. 26, comma 4-bis, nonché la contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, affermando che l’esclusione del diritto all’indennizzo per i maggiori oneri si pone in contrasto con l’intervenuto accertamento della sopportazione di tali oneri da parte di essa ricorrente e del vantaggio ritrattone dalla 2006 nei rapporti con la committente.
  3. 12. I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto questioni tra di loro connesse, sono inammissibili.

Il rigetto della domanda di riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento risulta infatti giustificato dalla sentenza impugnata in base a tre distinti ordini di considerazioni, configurabili come altrettante rationes decidendi, e costituiti rispettivamente dal difetto di sussidiarietà della azione, proposta nonostante la disponibilità di rimedi contrattuali, dalla riconducibilità dello squilibrio patrimoniale alle pattuizioni intervenute tra le parti, qualificabili come giusta causa dell’impoverimento, e dall’esclusione del nesso di causalità tra la locupletazione dell’appaltatrice e la diminuzione patrimoniale subita dalla subappaltatrice, la quale aveva ricevuto esattamente quanto previsto dal contratto. Nell’impugnare la predetta statuizione, la ricorrente si limita a censurare la prima affermazione, nonché ad insistere sull’avvenuta dimostrazione dell’arricchimento e dell’impoverimento, senza farsi carico di contestare la ritenuta sussistenza della giusta causa e l’insussistenza del nesso eziologico, la cui mancata impugnazione comporta l’inammissibilità della censura proposta, per difetto d’interesse. Qualora infatti, come nella specie, la decisione sia fondata su una pluralità di ragioni distinte ed autonome, l’omessa impugnazione di una o più di esse ne comporta il passaggio in giudicato, facendo pertanto venir meno l’interesse all’impugnazione delle altre, il cui accoglimento non potrebbe in alcun caso condurre all’annullamento della decisione, idonea a reggersi autonomamente sulla base di quelle divenute definitive (cfr. Cass., Sez. 1^, 27/07/2017, n. 18641; Cass., Sez. 6^, 18 aprile 2017, n. 9752; 3 novembre 2011, n. 22753).

Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in 200,00 EUR, ed agli accessori di legge.

[Omissis].

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